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Ipse dixit. Quando Vespasiano disse: «Pecunia non olet»





di LINO BEBER

Cesare Marchi (1922-1992), scrittore veronese, scrisse tanti bei libri e, oltre alle biografie di Boccaccio e di Dante, “Impariamo l’italiano” e “Siamo tutti latinisti”, nel quale ci ricorda che la nostra lingua italiana è figlia del latino, che un tempo era materia di studio anche nelle scuole medie.

Nella frase latina “Pecunia non olet” il termine pecunia, che talora usiamo tuttora, anche se preferiamo denaro, rimane uguale nelle due lingue, e olet dal verbo latino olere (odorare, soprattutto con il significato negativo di puzzare) da cui derivano gli olezzi di vividi fior cantati nell’Inno al Trentino.

Lo storico latino Svetonio (70-126 d.C.) nella sua opera sulle “Vite dei Cesari” – che contiene le biografie di Giulio Cesare (101-44 a.C.) e di 11 imperatori fino a Domiziano (51-96 d.C.) – riporta la frase “Pecunia non olet” (Il denaro non ha odore o non puzza) attribuita a Vespasiano (9-79 d.C. imperatore dal 68 al 79), a cui il figlio Tito aveva rimproverato di aver messo una tassa sull’urina raccolta nelle latrine gestite da privati che ricavavano denaro dalla vendita dell’ammoniaca necessaria alla concia delle pelli. Secondo la leggendaria tradizione Tito avrebbe tirato alcune monete in uno dei bagni, in atto di sfida al padre, il quale le avrebbe raccolte e, avvicinatele al naso, avrebbe pronunciato la fatidica frase.

Il detto è usato per indicare che, qualunque sia la sua provenienza, “il denaro è sempre denaro”.

L'etimologia della parola latina pecunia (denaro) per alcuni deriva da pecus (pecora, bestiame) perché anticamente gli animali, e soprattutto il bestiame allevato, rappresentavano la ricchezza posseduta e scambiabile dagli esseri umani per mezzo del baratto. Le pecore, i polli, e gli altri animali d'allevamento rappresentavano le banconote di un tempo, quando ancora non vigeva l'uso delle monete.

Per altri la parola latina pecunia origina dalla radice indoeuropea PEKU, che indica la ricchezza mobile. Pecunia per i Latini era la divinità della ricchezza e dell’abbondanza e la figlia Argentinus nel pantheon romano era la protettrice del denaro e degli uomini d’affari.

L’imperatore Vespasiano è più conosciuto per la sua tassa sulla pipì e per quella frase così sfruttata in seguito con valenze ben più negative, che per quel grandioso monumento, ancora oggi simbolo di Roma in tutto il mondo, che fece costruire durante il suo regno: il Colosseo.

Vespasiano è così diventato il nome comune con cui in Italia erano designati un tempo gli orinatoi pubblici.

Vespasiano, militare di origine plebea, subentrò a Nerone e fu considerato l’imperatore del buon senso nella gestione della cosa pubblica, sia nel campo urbanistico (Anfiteatro Flavio più noto come Colosseo, Tempio della Pace, Domus Flavia, Foro Transitorio, Tempio di Giove Capitolino e tante altre opere) che nel campo economico-finanziario con la tassa sull’urina e la tassa sugli Ebrei (fiscus judaicus), mentre con un editto venivano esentati dal pagamento di alcuni tributi magistrati, medici, retori e insegnanti.

Ricordiamo che fu proprio Vespasiano e il figlio Tito a completare l’opera di distruzione di Gerusalemme e con essa del Tempio sacro di Salomone e della fortezza di Masada, dando inizio a quella che sarebbe passata alla storia come la diàspora; più di un milione di Ebrei furono annientati e costretti ad abbandonare i territori.

Alcuni libri recentemente pubblicati hanno il titolo “Pecunia non olet” e parlano degli intrallazzi tra la mafia e i poteri forti economici e politici; il recente Qatargate è un clamoroso esempio di avidità di alcuni nostri politici che antepongono i loro sordidi interessi al bene comune.








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