top of page

Domani a Baselga di Piné c'è "Il pesce è finito", nuovo libro del naturalista Gabriele Bertacchini





di JOHNNY GADLER

Domani 5 agosto, alle ore 20.30 presso la Biblioteca di Baselga di Piné, il noto naturalista Gabriele Bertacchini presenta il suo nuovo libro "Il pesce è finito!"

Avete presente la pubblicità in cui una povera particella di sodio dispersa nell’acqua grida:“Ehi, c’è nessuno?” Beh, è proprio quello che potrebbero urlare i pesci, che sono sempre meno, tanto che alcune specie rischiano l'estinzione. E non perché siano le più deboli. Anzi!

È il caso, ad esempio, dello spatola cinese, uno dei più grandi pesci d’acqua dolce al mondo. Diffuso nelle acque terrestri da oltre 200 milioni di anni, era sopravvissuto a ben quattro estinzioni di massa, fra cui quella che risultò fatale ai dinosauri. Eppure nel 1983 entrò a far parte delle specie più a rischio. Oggi il pesce spatola è stato dichiarato estinto.

L'ECCESSIVO sfruttamento dei mari per il consumo alimentare è il tema al centro del libro Il pesce è finito, scritto da Gabriele Bertacchini, naturalista e divulgatore ambientale molto noto nella nostra zona, che durante l’estate terrà delle conferenze anche in Valsugana. Per entrare più in sintonia con il lettore, Bertacchini riporta alcune osservazioni empiriche e personali – come quando racconta delle battute di pesca con suo nonno in Sardegna – ma la questione è affrontata in maniera rigorosa e scientifica sulla scorta di dati oggettivi. Eccoli.


PER LA FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura), circa il 34,2% degli stock ittici viene pescato a livelli biologicamente non sostenibili. Nel 1970 questa cifra si attestava intorno al 10%.

Se nel 1961 il consumo pro capite annuo di prodotti ittici a livello mondiale era di soli 9 kg, oggi supera i 20 kg.

In pochi decenni un vertiginoso aumento dei consumi, quindi, che Bertacchini spiega così: «Innanzi tutto nel corso del '900 abbiamo costruito sistemi di conservazione (pensiamo alle celle frigorifere) e sistemi di trasporto che hanno tolto al pesce il connotato territoriale. L’utilizzo dei prodotti ittici non è più legato alla reale disponibilità di un luogo quanto ad una domanda basata su mode e disponibilità di natura economica. Il loro consumo non segue le leggi naturali, fatte di tempi di riproduzione, andamenti stagionali e periodi di pausa, quanto quelle del mercato».


IL DISCORSO, ovviamente, non vale solo per il pesce. Come scrive Bertacchini: «Le banane, in Valsugana, raccontano alcuni anziani del posto che ho avuto la fortuna di intervistare, “arrivavano da Trento con gli autisti delle corriere una volta a settimana. I limoni venivano adoperati come una medicina e si comperavano solo in caso di bisogno”. Di certo, a ottobre, non c’erano gli asparagi freschi provenienti dal Perù. Forse è anche per questo che in Italia – un Paese molto differente per caratteristiche fisiche e meteorologiche – sono fiorite nei secoli una moltitudine di ricette tradizionali basate su prodotti tipici, quasi esclusivi di determinate zone soltanto, che la voglia di globale sta facendo o ha già fatto scomparire».

Non stupisce, pertanto, il fatto che Milano, città senza mare, consumi molto più pesce di quanto facciano i Greci, mentre il New York Times l'ha addirittura proclamata "regno della cucina di pesce in Italia".

CIRCA le specie maggiormente minacciate, Bertacchini afferma che non esiste una risposta univoca: «Una specie potrebbe essere “abbondante” in un’area e ridotta all’estremo in un’altra. In generale, possiamo dire che tutte le specie più commerciali, quelle che per prime ci vengono in mente, con particolare riferimento a quelle di maggiori dimensioni, non se la passano troppo bene. A livello globale, in soli 60 anni, abbiamo aumentato il consumo di tonno del 1000%. Su 163 specie di cernie, 20 sono a rischio di estinzione. Il pesce spada, nel Mediterraneo, è diminuito del 70% in poco più di 30 anni. Il nasello presenta un tasso di sovrasfruttamento di 5,5 volte superiore a quello sostenibile con picchi che superano 10 volte il livello di sfruttamento sostenibile nel Mediterraneo occidentale. E ancora Verdesca, Palombo, Smeriglio, Anguilla, Rana pescatrice…».


MA NON VI È SOLO l’eccessivo consumo alimentare a mettere a rischio alcune specie di pesce. Esistono anche altre ragioni. Bertacchini cita il caso dei capodogli, sterminati già nel corso del ‘700 per utilizzarne il grasso nella produzione di candele, olio per lampade, lubrificanti e cosmetici.

Inoltre sul banco degli imputati – tralasciando i pescatori di frodo, i quali ricorrono anche a pratiche illegali come esplosivi, veleni, elettrostorditori – vanno messi pure i sistemi di pesca che – spiega Bertacchini spesso non sono selettivi, finendo per intrappolare anche specie protette da normative internazionali (pensiamo a tartarughe o cetacei). Un rapporto del Wwf stima che ben il 40% del totale del pescato venga rigettato in mare, ferito o morto. Questo succede per vari motivi: ad esempio se le celle frigo sono già piene, privilegiando quindi le specie a maggior valore commerciale; se il pescato non corrisponde ai requisiti di mercato; se si è andati fuori quota… Senza contare poi che le reti a strascico o le draghe turbosoffianti possono rovinare l’ecosistema marino e che i materiali con cui sono realizzate, se dispersi, possono restare nei mari per più di 500 anni.

«SE MANCA IL PESCE – qualcuno potrebbe dire – alleviamolo!».

L'acquacoltura, peraltro, è una pratica antica, utilizzata già dagli Egizi e dagli antichi Romani (i quali allevavano anguille, murene, spigole, orate e ostriche), ma che ha avuto un vero e proprio boom negli ultimi decenni: nel 1970, secondo la FAO, del pesce che finiva sulle nostre tavole solo il 5% proveniva da allevamento. Nel 2016 tale percentuale era salita al 53%, oltre la metà.

Ma per allevare il pesce, purtroppo, servono altri pesci: per ottenere 1 kg di tonno rosso, ad esempio, bisogna utilizzare circa 15 kg di altro pesce. Infatti sono pochi i pesci, come le carpe, che possono essere alimentati quasi esclusivamente con farine di tipo vegetale.


LA CONCLUSIONE A CUI giunge Bertacchini non è quella di evitare di mangiare il pesce, bensì suggerisce da un lato di ridurre la quantità – talvolta, per chi già mangia poco pesce, basterebbe solo eliminare gli sprechi – e dall'altro invita a migliorare la qualità, acquistando sempre pesce fresco, possibilmente in una pescheria di fiducia anziché nei reparti dei surgelati nei grandi discount, scegliendo di non concentrarsi solo su alcune specie ritenute principali, al fine di alleggerire la pressione su di esse, magari scoprendo così nuovi sapori, con una maggiore attenzione alla stagionalità del mare e una più puntuale consapevolezza circa i metodi di pesca utilizzati.

Il nostro palato sarà ugualmente soddisfatto, il mare ci ringrazierà e allora potremo davvero dire che il pesce fa bene. A tutta la biodiversità.


Gabriele Bertacchini (nella foto) è un divulgatore ambientale. Dopo la laurea in Scienze naturali e un master in comunicazione ambientale, nel 2006, fonda AmBios, azienda specializzata in educazione e comunicazione ambientale. Collabora con molti enti sul territorio nazionale. Ha all’attivo oltre duemila incontri pubblici tra conferenze e momenti formativi. Ha pubblicato: Il mondo di cristallo (2017); L’orso non è invitato (2020); Il pesce è finito (2021).





363 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page