di NICOLA PISETTA
Tutto iniziò la mattina del 30 dicembre 1998: era un mercoledì e Cristian Sighel doveva recarsi al lavoro in officina. La passione per i motori lo spinse a seguire le orme del papà che nei primi anni ‘90 aprì un’officina a Baselga.
Classe 1978, Cristian era un ventenne spensierato: aveva appena svolto la leva militare, trascorrendo un periodo a Palermo e a quell’età viveva il sabato sera, come spesso accade, come il momento più atteso della settimana. Il Natale era appena passato e la notte di San Silvestro era alle porte: la magia dei giorni di fine anno, però, venne bruscamente interrotta dalla cruda realtà che Cristian dovette, improvvisamente, fronteggiare.
Alzatosi dal letto, fu colto d’immediato da quello che sperava fosse solo il peggiore degli incubi nel sonno: non riusciva più a vedere.
Portato d’urgenza a Trento e poi trasferito a Verona, Cristian riuscì a recuperare la vista solo in piccola parte, distinguendo la luce tra il giorno e la notte: per il resto, divenne tutto irreversibile.
La vita cambiò, inevitabilmente. Fu ardua, per lui, da affrontare, sia fisicamente che psicologicamente. Il mondo che aveva in mano gli crollò addosso.
Non tutto era però perduto: gli aiuti dei familiari e degli amici e le riflessioni che nacquero dalle loro parole, contribuirono a offrirgli il maggior beneficio per contrastare una tribolante condizione emotiva.
Così, lo sport divenne la nuova occasione di rinascita.
Prima grazie al judo e poi, soprattutto, alla corsa che gli permetterà di misurarsi sui terreni più improbabili: come prima sfida, partecipò alla 24 ore della Mai Zeder, un evento podistico non-stop che si teneva attorno al lago della Serraia negli anni 2000, dalle 9 di mattina alle 9 del giorno dopo. Vinceva chi percorreva la maggiore quantità di chilometri senza mai fermarsi: era un terreno impervio? Un’attività limitante? Un’impresa impossibile? Neanche per idea! Cristian sfiorò, per soli 6 chilometri, la terza posizione e portò a termine la missione.
Quello fu solo l’inizio di una incredibile storia che ora Cristian Sighel ci racconta in prima persona..
Cristian, prima di quel 30 dicembre avevi mai avuto problemi di vista? «No, nulla mi fece presagire quanto sarebbe accaduto. Anzi, sulla vista non avevo mai avuto alcun problema: nel 1997 avevo ottenuto la patente B per la macchina e poi, durante il periodo militare, la C per il camion e la E per il rimorchio. Da marzo a fine maggio 1998, inoltre, in caserma fui dislocato in un’officina a Palermo, in quanto meccanico d’esperienza. Tutte attività da svolgere, quindi, dove l’esame della vista è fondamentale».
Quale fu, quindi, il motivo che ti danneggiò la vista?
«Tutto iniziò da un ascesso: si formò una palla di pus tra il cranio e il nervo ottico che crescendo colpì le cellule. Aumentando di volume, il nervo si trovò di conseguenza compresso e il sangue non circolava più correttamente. Oltre a non riuscire a vedere, quella mattina sentivo anche un forte dolore alla testa: mia mamma mi portò subito in ospedale, dove diagnosticarono quanto ho descritto. Mi spostarono a Verona e mi operarono due volte, il 31 dicembre e il 6 gennaio. Qualcosa parve subito funzionare: recuperai, riuscendo a leggere persino i fumetti. Poi, però, la vista era andata spegnendosi nuovamente: il risultato, alla fine, fu il solo riconoscimento del giorno e della notte. Oggi faccio molta fatica ad identificare i caratteri grandi e dallo smartphone, quando comunico, lo faccio con i relativi sintetizzatori vocali».
Dopo la malattia non volevi rinunciare all’officina: quali ostacoli si presentarono?
«Questo lavoro era diventato insostenibile: la tecnologia informatica e l’elettronica mi limitavano nell’attività. Per un meccanico sono strumenti fondamentali, un’assoluta esigenza per le diverse operazioni da svolgere sulle vetture. A malincuore dovetti perciò andarmene dall’officina e cambiare lavoro: tramite il mio amico Riccardo, andai a lavorare al centralino presso un ente pubblico. Dal 2015, poi, grazie al pensionamento di un impiegato non vedente, riuscii ad ottenere il posto presso la Cassa Rurale Alta Valsugana».
Hai imparato il Braille?
«Sì, mi servì per ricevere l’attestato di centralinista. Feci un esame attraverso alcuni esercizi di scrittura e di lettura di un testo. Per l’occasione imparai anche il francese. Fu un arduo lavoro, svolto in pochi mesi. Ma il Braille non l’ho più utilizzato: riesco a leggere i caratteri grandi, specie se sono in grassetto, e ho sempre voluto dimostrare, con tutto lo sforzo possibile, l’autonomia sulla lettura. Sono molto orgoglioso e non voglio arrendermi: la rassegnazione non mi appartiene. Questo fattore caratteriale mi ha aiutato anche ad affrontare la stessa malattia».
Quanto tempo ti è servito per accettare la nuova realtà?
«Almeno 5 anni. Decisi di iscrivermi al corso Braille nel 2003 e mi resi conto che, se volevo cambiare in positivo la mia vita quotidiana, dovevo darmi da fare con tutti gli strumenti a disposizione per un ipovedente. Cercavano di darmi forza, oltre ai familiari, anche i miei amici e lì mi accorsi anche di chi, davvero, teneva a me. Pensate: a Verona, durante il ricovero, ricevetti visite inaspettate di ragazzi che conoscevo poco. Altri, invece, specie quelli con cui ero uscito il sabato prima, non vennero né a trovarmi, né si premurarono di telefonare ai miei genitori per sincerarsi delle mie condizioni. Da 100 gli amici divennero 10. Come si suol dire: mejo pochi ma boni».