Una famiglia valsuganotta perbene, quella di Michelangelo Prati, molto dinamica, di grandi capacità imprenditoriale, ricca di talenti artistici, ma segnata dalla tragica fine proprio del capofamiglia, avvenuta il 13 dicembre 1915 a Marter dopo una scelta risoluta ed eroica...
di LINO BEBER
Nel 1936 il giornalista perginese Mario Paoli (1900-1968) scrisse un volumetto di storia locale riguardante la figura di Michelangelo Prati (1865-1915), fratello dei pittori Eugenio (1842-1907) e Giulio Cesare (1860-1940).
L'INFANZIA SEGNATA
Michelangelo nacque a Caldonazzo in Via Case Nuove il 27 agosto 1865, ultimogenito dei 14 figli di Domenico (1808-1867), di professione geometra, e di Lucia Garbari (1819-1869), di nobili discendenze, e ben presto rimase orfano di entrambi i genitori.
All’età di quattro anni, dopo la morte della madre, si trasferì a Borgo Valsugana presso gli zii Francesca Prati e Pietro Zanetti, medico condotto, dove fu allevato assieme al fratello Giulio, frequentò la scuola e vi rimase per diciotto anni.
L'AVVENTURA BRASILIANA
Nel 1886 emigrò in Brasile con i fratelli Leone, Stefano Probo e Anacleto. A Porto Alegre, capitale del Rio Grande do Sul, conobbe e sposò la brasiliana di origine germanica Carolina Mattye, nata nel 1864 a Lajeado nel Rio Grande do Sul e deceduta nel 1951 a Milano.
Michelangelo partecipò alla società con i fratelli Leone, Stefano Probo e Anacleto ottenendo dei sub-appalti per la costruzione della ferrovia con l’Uruguay e il 17 aprile 1889 durante una sosta in questo paese a Paysandù naquero i due gemelli Edmondo ed Eriberto.
Alla fine del 1890 ritornò con la moglie e i due figli a Caldonazzo alla casa-molino perché desideroso di dare un’educazione ai figli nel paese di origine e nel 1891 nacque il terzo figlio Alfredo.
Nel 1895 emigrò nuovamente in Brasile stabilendosi a Uruguaiana nel Rio Grande do Sul vicino al confine con l’Uruguay, dove nacquero le figlie Sara, Lastenia, Edilia, Alice e nel 1899 l’ultimo figlio maschio Italo (1899-1982), noto musicista, diplomatosi in violino al conservatorio di Milano e facente parte dell’orchestra di Arturo Toscanini e di Igor Stravinsky, con i quali suonò anche alla Scala di Milano. A Uruguayana Michelangelo possedeva una “chachera”, piccola fattoria, e nel tempo libero suonava il flauto e il “rebecon”, un contrabbasso, divertendo il pubblico nelle osterie.
IL RICHIAMO DELLA PATRIA
Nel 1906 Michelangelo tornò definitivamente con la famiglia in Italia a Milano trovando lavoro.
Ai primi di marzo del 1907 ritornò a Caldonazzo per i funerali del fratello Eugenio.
Nel mese di ottobre 1907 i due figli gemelli Edmondo ed Eriberto, all’età di diciotto anni, emigrarono in Uruguay in cerca di fortuna. Edmondo (1889-1970) si dedicò alla scultura diventando un valente artista al quale a Salto in Uruguay è dedicato un museo, mentre il fratello Eriberto (1889-1982) fu un valente pittore.
LO SPIRITO IRREDENTISTA
Michelangelo era un irredentista patriottico, iscritto alla Lega Nazionale di Caldonazzo assieme a molti membri della sua famiglia. Nel luglio del 1914 allo scoppio della prima guerra mondiale si trovava a Bressanone e tornò a Caldonazzo alla casa-molino dal fratello Giulio e sorelle Luigia e Isabella.
Il 2 giugno 1915 il fratello Giulio e le sorelle Luigia e Isabella ricevettero l’ordine di abbandonare entro tre giorni la casa-molino e di trasferirsi come profughi in Moravia a Slusovice, seguendo le sorti di molti abitanti della Valsugana.
Michelangelo aiutò le due sorelle a portare via tutto dal molino e a sistemare le masserizie in casa della parente Lucia Prati Agostini, dove riuscì a tenere nascosto in soffitta Emanuele Curzel, disertore dell’esercito austro-ungarico in Galizia.
Dopo che i gendarmi austriaci riferirono al fratello Giulio, che solo per il suo atto di eroismo nei confronti del finanziere austriaco al quale aveva salvato la vita, aveva evitato di essere internato nel Lager di Katzenau, cominciò a temere anche lui di finire in un campo d’internamento.
Infatti Michelangelo, a motivo del suo carattere impulsivo e incapace di reprimere i suoi sentimenti patriottici, fu denunciato e il 20 dicembre 1914 esonerato dalla direzione d’importanti lavori per la costruzione dei forti dell’altopiano di Lavarone. Rifiutò i ripetuti inviti dei fratelli e della moglie Carolina di rifugiarsi a Milano dove lei viveva con i sei figli e dove si erano rifugiati il fratelli Anacleto e Benedetto Prati con le rispettive famiglie per non essere internati a Katzenau.
Michelangelo e i fratelli il 4 giugno 1915 videro distruggere con una carica di esplosivo la casa-molino dagli austro-ungarici, in quanto nelle immediate vicinanze passava la seconda linea di difesa; si arrabbiò e si recò dal Curzel, nascosto nella soffitta di Lucia Prati Agostini, convincendolo a darsi alla macchia, sicuro che in breve tempo i soldati italiani sarebbero arrivati a Caldonazzo.
VITA DA FUGGIASCHI
Mentre il fratello Giulio con la moglie, i figli e le sorelle partirono il 5 giugno 1915 alle sei di mattina su un treno merci più adatto al bestiame che agli esseri umani per un viaggio della disperazione di quasi mille chilometri e durato tre giorni verso Slusovice in Moravia, Michelangelo Prati ed Emanuele Curzel quel giorno decisero di darsi alla macchia come partigiani e scelsero come nascondiglio una caverna presso il “Croz dell’Agola” (Crozzo dell’aquila) sopra Caldonazzo sul monte Cimone a 800 metri sul livello del mare, trasportando nella notte arredi, materassi, coperte, viveri, armi e munizioni.
Michelangelo da buon cacciatore aveva una doppia ad avancarica e un fucile vecchio modello, Emanuele un Mauser austriaco e il proprio fucile da caccia.
GUERRIGLIA E SABOTAGGIO
La loro azione di guerriglia e di sabotaggio è descritta da Mario Garavelli nel giornale “Il Brennero” del 18 luglio 1934:
«Ha inizio una loro spietata guerriglia condotta con accanimento contro le opere militari austriache, guerriglia sorda ed ostinata, forse l’unica nel suo genere, sul fronte trentino. Cavi telefonici e telegrafici tagliati, centraline di accumulatori distrutte, segnavia sviati, segnali capovolti, opere di rinforzo stradali crollate. Una volta spintisi fino alla fucina di Val Grande si munirono di seghe del ferro e poco dopo iniziarono il taglio dei cavi della teleferica di Monte Rovere, importante organismo per i servizi logistici dell’Altopiano. Un infernale frastuono rimbombante nella vallata scosse gli abitanti di Caldonazzo e trovò spiegazione nel fatto che i vagoncini non più trattenuti dal cavo aereo, erano piombati nel fondovalle immobilizzando la teleferica per due giorni. La lotta senza quartiere fu condotta per mesi e mesi senza che gli standschützen riuscissero a por mano sugli audaci che imperterriti continuavano le loro gesta».
UNA SPIRALE D FUMO
Il 12 dicembre 1915 il monte Cimone era avvolto da una folta nebbia e verso mezzogiorno il Curzel accese un fuoco sul “Croz dell’Agola” per preparare il pranzo ma, tradito da un’improvvisa schiarita e dalla legna umida per le recenti nevicate, non poté impedire che la fumata fosse vista dal caporalmaggiore della gendarmeria di Caldonazzo, il boemo Gabloner.
LA FUGA
Decisero di allontanarsi immediatamente prima che le pattuglie armate potessero arrestarli e, scendendo per i sentieri della valletta del Rio Centa, raggiunsero i boschi della frazione di Santa Giuliana dove passava la linea austriaca Cima Vezzena-Panarotta.
Per non lasciare traccia nel sottile strato di neve decisero di proseguire nelle gelide acque del fiume Brenta per alcuni chilometri fino a Novaledo. Protetti dalle tenebre giunsero al disabitato maso Pacher di Marter in località “Brustolai” dove entrarono per ripararsi dal freddo. La presenza di alcune pagnotte italiane trovate su un tavolo li indusse a credere di trovarsi in zona sicura e prossima alla linea italiana e così decisero di passarvi la notte con l’intenzione di proseguire di buon mattino verso Borgo Valsugana.
Alle prime ore del mattino del 13 dicembre, costretti a ritardare la partenza a causa di un forte dolore al ventre di Michelangelo causato dalla camminata nelle fredde acque del fiume Brenta, accesero un fuoco per riscaldarsi e asciugare gli indumenti. Il fumo del fuoco uscito dal camino, visto dalle postazioni militari della Panarotta, fu fatale a Michelangelo.
L'INIZIO DELLA FINE
Fu dato l’allarme e verso le 12.30 circa del 13 dicembre il maso fu circondato da una pattuglia di quattro Landschützen Rattemburghesi che intimarono ai due di uscire e arrendersi. Immediatamente Michelangelo ed Emanuele da due posizioni diverse cominciarono a sparare per far credere di essere numerosi all’interno del maso. Lo scontro durò per un po’ di tempo finche gli austriaci decisero di incendiare il maso con una catasta di fascine; il fuoco lentamente si propagò e la casa stava per diventare un rogo.
Nel frattempo Michelangelo fu colpito a una guancia e, pur ferito e sanguinante, riuscì a colpire a un ginocchio Alois Janes, il comandante della pattuglia. A un certo punto i due, impossibilitati di resistere al fuoco, decisero di uscire allo scoperto dalla casa in fiamme.
“Sbara drito! Bisogn mazarne pù che se pol!” furono le ultime parole di Michelangelo dette al compagno prima di uscire dal maso.
Il Curzel uscì inosservato dalla parte opposta di quella controllata dai soldati e riuscì a nascondersi in una buca, mentre il Prati si diresse verso il pozzo dove fu colpito da dieci fucilate, tra cui due in pieno viso, e morì sul colpo.
Quando Michelangelo fu visto esanime a terra la pattuglia si allontanò per trasportare a braccia il caporale Janes all’ospedale di Levico.
IL SOPRAVVISSUTO
Emanuele uscì allora dal rifugio e, costatato che il compagno era morto, si avviò per il monte Armentera dove incontrò i soldati italiani nella trincea della Selletta di Puisle riuscendo così a salvarsi.
Il giorno dopo una squadra di militari tornò al Maso Pacher per cercare tra i ruderi il corpo del Curzel.
La furia e la rabbia degli austriaci si abbatté sul povero corpo di Michelangelo Prati che fu più volte colpito dalle baionette e con il calcio dei fucili; il corpo venne poi legato con un filo di ferro alla caviglia destra e trascinato per alcuni chilometri fino a Barco di Levico dove fu sepolto nella nuda terra.
IL RITROVAMENTO
Nel 1920 il figlio Edmondo con moglie e due figli ritornarono in Italia. Dopo innumerevoli ricerche del figlio, che non riusciva a darsi pace, la salma di Michelangelo fu ritrovata ventuno anni dopo, il 4 febbraio 1936, a Barco di Levico sotto le chiome di un gelso vicino a un letamaio da Achille Osler presso il suo cascinale, che durante la guerra era stato usato come distaccamento militare.
LA CERIMONIA DI SUFFRAGIO
Sabato 19 aprile 1936 la Legione Trentina con il suo vicepresidente professor Ezio Mosna organizzò una cerimonia di suffragio ai “Brustolai” di Marter, nel luogo dell’uccisione di Michelangelo Prati, alla presenza del generale Larcher, dei podestà di Trento, Roncegno e Caldonazzo, di numerose autorità, dei figli Edmondo, Sara, Edilia, Lastenia, dei fratelli Isabella e Giulio e del commilitone Emanuele Curzel. Nello stesso giorno dopo la commemorazione fu scoperta la lapide di marmo bianco murata sulla casa con la seguente epigrafe: «Nell’ardente clima del Littorio rivive l’irredento Michelangelo Prati ribelle all’Austria che tutto osando senza nulla speranza si batté da leone contro una pattuglia nemica preferendo la bella morte alla resa Marter dicembre 1915».
Nel pomeriggio i suoi resti mortali furono tumulati nel cimitero di Caldonazzo con la partecipazione di una folla numerosa. Lo stesso giorno fu pubblicato per “Edizioni irredentismo eroico” un libro di 92 pagine a cura del giornalista Mario Paoli dal titolo Michelangelo Prati.
EPILOGO
Edmondo nel 1937 ritornò in Uruguay e nel 1951, dopo la morte della madre Carolina, realizzò un bassorilievo di bronzo dedicato ai genitori per la tomba di famiglia, con la frase “Onora il padre e la madre ed avrai bene sulla terra”.
Nella stessa tomba trovarono l’eterno riposo anche le ceneri di Eriberto Prati. Le ceneri del fratello gemello Edmondo si trovano nel cimitero di Caldonazzo, insieme a quelle della moglie Teresita e dei due figli morti quando erano bambini.
E per concludere il ricordo di Michelangelo le ultime due pagine dello scritto di Mario Paoli.
«Gli anni passano. L’episodio eroico dei Brustoladi viene fatto rivivere nei racconti del popolo come una lontana leggenda. Dove la terra è stata rigenerata dal sangue si miete il grano. Le trincee sono scomparse; il tempo ha livellato il terreno. Pazientemente, gli anni hanno ricolmato gli scavi, hanno confuso i segni della violenza, hanno suturato le ferite, hanno lenito lo strazio. Dove brontolavano le mitragliatrici o urlavano le granate, oggi, canta la giovinezza. Tutto rinasce. Dai campi ai boschi, dalla valle al monte, per tutti i borghi, per tutte le ville, dovunque palpita un cuore, la vita ha ripreso il suo ritmo. Ma nelle case, al tramonto, quando la campana squilla l’Avemaria, chine sul focolare, le mamme sussurrano una preghiera: Pace, o Signore, per tutti quelli che hai chiamato al tuo seno. Pace per i vincitori e i vinti riconciliati nell’eterno sonno. Pace per i nostri padri, per i nostri figli e per i nostri fratelli che nella grande lotta soffrirono. Pace e gloria, o Signore, a Coloro che per la Patria nostra consumarono l’olocausto più puro sull’ara dei nostri monti nell’atto sublime di consacrare questa nostra terra all’Italia».
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