Giancarlo Genetin, custode forestale e presidente del Comitato dei Matoci, racconta per Il Cinque la Valfloriana e l’antica tradizione invernale dei matoci...
di NICOLA PISETTA
Il carnevale è passato e, a causa del Covid, per la prima volta dagli anni ‘80, Valfloriana non ha organizzato la festa dei Matoci, una delle poche maschere arcaiche ancora esistenti nelle Alpi.
Nati alla fine del medioevo, quando Valfloriana si trovava sotto l’influenza del Vescovo di Bressanone e la vita politica era dominata dai castelli e dai feudi, dal 1500 divennero un vero e proprio simbolo culturale della comunità: «Allora – ci spiega Giancarlo Genetin, custode forestale e presidente del Comitato dei Matoci – erano maschere realizzate per i matrimoni: le celebrazioni, visto il riposo forzato dei contadini, si tenevano in inverno e i matoci inauguravano i cortei nuziali. A fianco, i giullari organizzavano gli scherzi. Altrettanto interessanti, poi, erano gli arlecchini di corte che in piazza riportavano le storie più eclatanti, burlandosi dei fatti delle persone o proponendo battute satiriche sulla vita politica».
Una vera e propria usanza, dunque, tramandata di padre in figlio: le maschere vengono prodotte dagli scultori, spesso operai o contadini che in inverno non lavorano, vendendone anche come souvenir.
Ciò che differenzia i matoci dai krampus tedeschi e ladini, dice Giancarlo, «è proprio questo: mentre produrre i matoci è un hobby che si coltiva a riposo, i krampus sono maschere che necessitano di artisti che li realizzano, spesso, per lavoro».
Infatti, a differenza dei krampus che sono diffusi in una grande area alpina nel triangolo Trentino-Friuli-Austria, i matoci sono circoscritti: sono nati in Valfloriana e non sono mai usciti dal territorio, nemmeno per pochi chilometri.
I costumi sgargianti e multicolori e le maschere di legno in cirmolo creano un revival festoso di un’epoca legata non solo alla vita di montagna d’un tempo, ma anche ai diversi microcosmi di ogni frazione: si nasceva e si moriva lì, tra lavoro e riposo, e quando arrivavano ospiti esterni, per contrastare la povertà era possibile richiedere un dazio, con un documento d’accesso. Per questo, oggi, la festa di carnevale è un percorso a tappe da una frazione all’altra, partendo da Sicina, il capolinea più alto, e scendendo in corteo a valle con un passaporto simbolico che dà “accesso” ad ogni località.
Non fu facile, tuttavia, portare avanti il rito nel ‘900, tra guerre mondiali, fame, cambiamenti economici e sociali delle valli alpine: dopo la seconda guerra mondiale seguì un periodo di abbandono. Furono i più anziani a ridare, a piccole dosi, valore al carnevale anni dopo, in un momento in cui Valfloriana si trovava a fare i conti con lo spopolamento del boom industriale: «Molti emigrarono: chi all’estero, chi trasferendosi a Trento e il comune perdeva le sue anime» ricorda Giancarlo.
«Negli anni ‘70 si doveva dare una svolta: il carnevale, che fin lì non ne prevedeva la partecipazione, fu aperto finalmente anche alle donne».
Gli eventi che si susseguirono divennero cruciali per lanciare il mercato turistico: «è una festa, questa, diventata popolare e conosciuta fuori dalla valle a partire dagli anni ‘80: a livello turistico, grazie all’APT di Fiemme – afferma Giancarlo – e a livello artistico grazie al grande lavoro realizzato alla fine degli anni ‘70 dal regista perginese Renato Morelli col suo docufilm L’Albero e la maschera».
Prima era l’ex sindaco Marco Nones a organizzare l’evento: deceduto improvvisamente, dal 2000 è il Comitato Carnevale a proseguire nel compito organizzativo, oltre a occuparsi di altri eventi locali annuali. Un’occasione, questa, per i giovani locali under 30 di rimanere coesi e mantenere reciproci legami.
Poi arrivò l’interesse della Regione e la valorizzazione, odierna, anche grazie all’Euregio, rendendo i matoci maggiormente conosciuti al pubblico: «come Comitato siamo stati anche all’estero – ricorda – e abbiamo sfilato ad Amburgo, accanto ad altre maschere caratteristiche d’Europa, dai Carpazi alle Alpi».
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