
Giancarlo Marchi, ex giocatore capitano e goleador del Borgo, ci parla del suo percorso sportivo che lo ha visto anche allenare le giovanili...
di PAOLO CHIESA
BORGO VALSUGANA – Giancarlo, come è iniziato il tuo amore per il calcio?
«Da piccolo facevo corsa campestre e ciclismo. E poi tanto pallone. Via Ortigara, dove sono cresciuto, era il campo di calcio di noi bambini. Oltre a me c’erano i miei fratelli Mario e Giorgio ed anche Mario Feller, tutti futuri giocatori del Borgo. Poi a 15 anni ho iniziato a lavorare e mi sono dedicato solo al calcio.»
Quando iniziasti a giocare nel Borgo?
«Fu nella stagione 1976/1977. Avevo 17 anni ed entrai direttamente in prima squadra senza passare per le giovanili. L’allenatore era Bepo Foches di cui ho un gran bel ricordo. A me piaceva giocare in avanti e lui mi aiutò a sviluppare le qualità che avevo oltre a sostenermi nell’inserimento in una rosa che aveva già fior di punte, come Giancarlo Bonella e Savio Gonzo.»
E tu che tipo di attaccante eri?
«Giocavo come punta esterna a sinistra. Forse non ero elegante nei movimenti, ma puntavo più alla sostanza che all’apparenza. Infatti il mio idolo di allora era Carletto Muraro, attaccante dell’Inter. Avevo un piede destro da 6 e mezzo e un sinistro da 6, però di testa ero forte, diciamo un bel 9 pieno. Ho segnato circa 150 gol, di cui 18 su 26 partite solo nella stagione 1982-1983 quando vincemmo il campionato di Prima Categoria.»
Non hai mai pensato di andare in un’altra squadra?
«Quando avevo 25 anni ne avrei avuto la possibilità. Mi avevano cercato due squadre dell’Interregionale, ma non accettai, sia perché allora avevo già tre figli, sia perché ero conscio dei miei mezzi. Per questo ho giocato sempre nel Borgo fino al 1993, quando smisi. Non ho nessun rimpianto e anzi, sono orgoglioso della scelta fatta allora.»
C’è una partita che ricordi in particolare?
«Nella stagione 1985-86 la partita in casa contro il Bolzano era stata rinviata per neve e venne recuperata di mercoledì. Sugli spalti c’erano circa 1500 persone e noi vincemmo 4 a 0 con due gol miei e due di Rino Stefani “Maruspia”. Alla fine della stagione vincemmo il campionato e salimmo in Promozione.»
Un gol al quale sei particolarmente legato?
«Ne ricordo due. Il primo a Rovereto segnato di testa mentre il portiere, il compianto Ghunter Mair, era in uscita e gridava: “mia!”. Quando venne a giocare nel Borgo me lo ricordò in più di un’occasione. La stessa cosa mi successe contro il Levico. In porta c’era Luciano Gabrielli e anche in quel caso lo anticipai di testa, mentre chiamava il pallone.»
Un ricordo particolare?
«Nell’82-83 nella partita in casa contro il Piné un fulmine cadde sugli spalti. Alcuni spettatori vennero ricoverati in ospedale. Naturalmente nessuno di noi si sentiva di riprendere a giocare, ma l’arbitro non era d’accordo. Perdemmo la partita a tavolino e ci diedero un punto di penalizzazione. Nonostante questo, vincemmo il campionato e salimmo in Promozione.»
E un episodio più divertente?
«Nel corso di una partita contro L’Anaune, sul risultato di 1-0 per loro, ci fu un rigore per noi all’ultimo minuto del primo tempo. Andai io sul dischetto, pensando che potevamo pareggiare e poi puntare alla vittoria nel secondo tempo. Invece del pallone colpii la terra e non segnai. D’altronde mi dicevano sempre che i gol quasi fatti li sbagliavo e facevo invece quelli impossibili.»
La tua esperienza come allenatore?
«Durante la stagione 1986-87 avevo 27 anni e mi capitò di fare l’allenatore-giocatore della prima squadra. Poi ho allenato nel settore giovanile e quello è stato un ruolo che ho sempre trovato bello e stimolante, perché potevo insegnare le cose che conoscevo e trasmettere ai ragazzi la passione che ho sempre avuto anch’io.»
Cosa vuoi dire ai ragazzi che oggi fanno sport?
«Di fare sempre le cose in maniera seria e convinta. Se si decide di fare parte di una squadra si deve mantenere l’impegno avendo rispetto sia verso la società che verso i compagni. E di dare sempre il massimo. Se il massimo è tanto o poco non ha importanza. Quello che è importante è l’impegno che si deve avere.»