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8 marzo. Donne in carcere: trattate peggio degli uomini





di FRANCO ZADRA


Lo dice la Costituzione, all’art. 27, che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», ed è in ossequio a questo principio scolpito nel marmo del nostro ordinamento, oltre che ai sensi dell'art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, che un detenuto – come abbiamo potuto apprendere da una notizia Ansa del 13 febbraio scorso – ha ottenuto uno sconto di pena di dieci mesi, precisamente 312 giorni, vincendo un ricorso in cui ha denunciato di aver subìto condizioni di detenzione nel carcere di Firenze-Sollicciano, dove era stato recluso per otto anni, «tali da costituire un trattamento inumano e degradante» a causa delle pessime condizioni della casa circondariale.


Una ordinanza dell’Ufficio di sorveglianza di Firenze ha quindi disposto per l’immediata scarcerazione dell’uomo, creando un precedente "pesante", almeno secondo Leo Beneduci, segretario generale dell'Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp), il quale – riportando sempre quanto comunicato da Ansa – avrebbe dichiarato: «Dalle nostre informazioni altri duecento detenuti nel carcere di Firenze-Sollicciano vogliono fare lo stesso tipo di ricorso, sicuri di vincerlo a questo punto. Ma a tale provvedimento potrebbero presto associarsi altre centinaia se non migliaia di detenuti, tenuto conto della fatiscenza e dell'incuria di almeno il 70% delle carceri italiane».

Si prospetta dunque uno scenario “apocalittico” nel quale il sindacalista prevede che moltissimi verranno restituiti alla libertà con larghissimo anticipo, «e appare inutile sottolineare – dice Beneduci - come ciò mini alle fondamenta i presupposti dell'emenda e del recupero sociale delle pene da scontarsi nell'attuale e ormai inadeguato sistema penitenziario italiano, oltre a costituire un grave problema in termini di ordine pubblico».


Ci troviamo, pare, davanti a un altro primato negativo, tutto e solo italiano, «unico caso al mondo – conclude, secondo Ansa, il sindacalista Osapp – dove lo Stato, a causa delle reiterate e gravi inefficienze dei propri apparati e in primo luogo dell'amministrazione penitenziaria centrale, risarcisce i detenuti attraverso sconti di pena di tale entità, oltre alla beffa inaccettabile nei confronti delle vittime di quei reati su cui verrebbe calato un improvviso colpo di spugna».

Un sistema penitenziario “ammalato” che sta contenendo in questo momento, secondo il sito ufficiale del Ministero di Giustizia, più di 60mila detenuti, oltre 10mila in più rispetto alla capienza regolamentare, ma con concentrazioni di sovraffollamento che superano a volte il tasso medio del 129% e in alcuni istituti (Taranto, Brescia, Como...) è stata raggiunta o superata la soglia del 200%.

Ma che dire delle donne recluse? Queste rappresentano una percentuale minoritaria dell’intera popolazione detenuta, appena il 4,2% – con una prevalenza in “ambito criminale” di donne italiane rispetto alle straniere che nel 2020, secondo il Ministero dell’Interno, era del 72%.


Nel carcere di Spini di Gardolo, al 31 gennaio 2024 le donne erano 26 su un totale di 375, per una capienza “regolamentare” di 422, mentre nella Casa Circondariale di Bolzano, che detiene 117 persone in una capienza regolamentare di 88, non ci sono donne.

In ragione della loro scarsa presenza ci si aspetterebbe una migliore gestione degli istituti che le ospitano. Invece molto più degli uomini subiscono un trattamento lontano dal “senso di umanità”, con meno possibilità dei detenuti maschi di accedere ai servizi di “rieducazione del condannato”, auspicati (meglio sarebbe dire “normati”) dal testo della Costituzione.

Una “irrilevanza” delle donne dentro questo nostro “pensiero unico”, che “sdogana” di fatto un’omologazione all’immagine della detenzione maschile, cancellando ogni differenza di genere e ogni analisi che la includa.

Lo scotto che pagano le donne è addirittura assurdo, inspiegabile tanto più in seguito all’emanazione delle così dette “70 regole di Bangkok”, del 21 dicembre 2010, approvate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che obbligano gli Stati a prevedere l’adozione di provvedimenti normativi che assicurino il ricorso alle misure alternative alla detenzione e di programmi di trattamento che tengano conto della differenza di genere.

Il loro profondo senso di disagio e inadeguatezza di fronte alla detenzione, conseguenza diretta di questa loro irrilevanza, si traduce ogni giorno di più in depressione, ansia, malattie psicosomatiche, fino al suicidio, esito drammatico che interessa il 33% dei casi di decesso di detenute nelle carceri italiane, dove il disagio mentale è accentuato, per esempio, dalla maggiore difficoltà rispetto agli uomini nel gestire il distacco dai figli e i sensi di colpa che ne possono derivare.

«Una sofferenza non necessaria – scriveva Susanna Ronconi su il Manifesto, in seguito al caso di una detenuta nel carcere delle Vallette di Torino che si è lasciata morire per uno sciopero della fame e della sete, nell’attesa di poter rivedere suo figlio –, che un carcere dei diritti, un carcere costituzionale, avrebbe il compito di limitare».

Un passo avanti sarebbe, almeno rispetto al testo del 1893 di Cesare Lombroso, “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”, dove si indaga circa l’inferiorità del numero delle delinquenti femmine rispetto ai maschi, al quale alcuni dirigenti sembrano, ma non è, ancora riferirsi. 





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