di TERRY BIASION
Nostra intervista a Francesco Moser che ripercorre la sua straordinaria carriera dagli esordi fino ai più grandi successi, passando poi per l'amore innato per la campagna e la passione per il vino...
Francesco, con 273 vittorie su strada, tu risulti il ciclista italiano con il maggior numero di successi, quinto assoluto a livello mondiale. Cosa ricordi di quegli anni? Come ha iniziato?
«Sono stati, ovviamente, periodi bellissimi. Lo sport di allora era diverso da quello di oggi. Ricordo che una alla volta le vittorie sono arrivate, ad un certo punto quando vedevo che il numero cresceva ho lavorato sempre di più per cercare di arrivare in cima con i grandi. A parte Merckx che era irraggiungibile gli altri erano sempre più vicini. Eravamo dodici fratelli, tre correvano. Aldo ha
iniziato l’anno il cui sono nato io, nel 1951, a 17 anni, io ho cominciato a 18. Avevo smesso di andare a scuola, lavoravo in campagna, lui ha detto: prova. Pensavo di non poter essere forte, ho tentato per curiosità, poi ho visto che andavo e ho fatto tutto il necessario per arrivare al successo: uno può avere il fisico e l’attitudine, ma arrivare fino in fondo o fare le cose a metà dipende dalla testa. Io volevo sempre migliorare ed essere fra i primi, anche se ho avuto avversari importanti come Felice Gimondi, Eddy Merckx e Roger De Vlaeminck, un belga che ha corso in Italia: tante volte ho vinto contro di lui, ma tante volte sono arrivato secondo dopo di lui. E la competizione è diventata più forte dopo che il ciclismo è uscito dai confini europei. I primi mondiali fuori Europa furono a Montreal nel 1974. Dopo, hanno cominciato ad arrivare i corridori americani e, con la caduta del Muro di Berlino, quelli dell’Est. Per vincere serve fortuna: alle Olimpiadi di Monaco del 1972 ero nella fuga giusta, poi, all’ultimo chilometro, ho bucato e sono arrivato settimo. Potevo essere bronzo o argento. Qualche anno dopo, facciamo il prologo del Giro di Germania e, nello stesso punto, avevo già vinto, ma ho bucato e sono arrivato secondo. Comunque di ricordi belli ne ho fortunatamente tanti».
Tra i tuoi successi, quale consideri speciale, quale porti nel cuore ?
«Più della singola corsa, vale l’insieme. Ognuna delle mie vittorie completa un mosaico di successi nel quale inserisco anche i Record dell’Ora. Tutte le mie corse vinte sono state sofferte, ognuna tiene dentro una storia di lavoro e di grande impegno, il ciclismo è proprio questo: trasformare l’impossibile in possibile con la perseveranza e con l’allenamento.
Certamente il campionato del mondo su strada, ma anche la Parigi-Roubaix che ho vinto tre volte mi ha lasciato un segno indelebile per le corse di un giorno, però per un italiano vincere il Giro d’Italia è qualcosa di speciale, perché l'ho inseguito per tanti anni. Ho portato la maglia rosa per quasi 60 giorni totali e finalmente nel 1984 l'ho vinto . Sì diciamo queste corse sono quelle che mi porto dentro».
Quali sono i principali cambiamenti nel ciclismo di oggi rispetto a quello dei tuoi tempi?
«Sicuramente l'entrata della tecnologia in tutti i sensi. Oggi sia gli allenamenti che il modo di correre vengono guidati dalla tecnologia e dai direttori sportivi che sono sempre in collegamento con i ciclisti e loro decidono tutto quello che devono o non devono fare i ciclisti, che non possono sbagliare. Noi eravamo diversi, decidevamo in corsa, seduta stante, in totale autonomia, padroni di noi stessi, non aspettavamo l’ammiraglia. Non c’erano radio o altro, magari quando si andava in fuga e arrivava l’auto la corsa era già decisa. Per non parlare della tecnologia, dell’abbigliamento, del tipo di bicicletta. Oggi il professionista ha tutto quello che gli serve. Mi ricordo i primi anni nostri, andavamo a correre con il freddo polare e con poca roba indosso. Nevicava, acqua tutto il giorno, tempo pessimo, un vero disastro. Il freddo entrava nelle ossa. Nel 1975, quando ho vinto il giro di Lombardia, è piovuto una giornata intera, a 10 gradi con continue salite e discese. Siamo arrivati stremati, non riuscivamo a stare in piedi. Ma anche in Belgio con la neve, piuttosto che nella Parigi-Roubaix o nella Tirreno Adriatico. Nevischio, sferzate di vento, acqua a catinelle. Un inferno. E poi, tanto per rendere più complicata la questione, avevamo pure le maglie di lana che si inzuppavano e si allungavano quasi fino alle ruote. Inoltre la tecnologia aiuta anche le squadre, una volta erano poco numerose, dai 12 ai 14 elementi, adesso arrivano anche a 25/28 unità. Oggi c’è più specializzazione: c’è chi va forte a cronometro e vi si dedica completamente, chi sprinta meglio di altri in volata e cura questi aspetti, chi va bene sul passo e chi sa scalare meglio le montagne….noi dovevamo andar forte dappertutto».
Secondo te, campioni si nasce o si diventa?
«La componente fisica bisogna che ci sia chiaramente, perché su tutti quelli che ci provano emergono solo i più forti, i più dotati. Potenzialmente ce ne sarebbero molti di campioni, sportivi cioè che a livello fisico e tecnico potrebbero ‘sfondare’. Eppure, non tutti riescono ad ottenere ottimi risultati, proprio perché non hanno forza di carattere. La mera forza fisica, infatti, non basta. Si diventa campioni se hai un carattere forte, per continuare ad ottenere risultati devi sottoporti a tanti sacrifici».
Francesco si sta meglio sul sedile di un trattore o su quello di una sella della bicicletta?
«Quando ero giovane, quando vincevo, stavo sicuramente meglio sul sellino della mia bicicletta; ora ci vado solo per passione, per passatempo. Sul trattore non ci vado molto e non è un impegno costante. Di conseguenza sto bene anche seduto sul mio trattore. Meno faticoso sicuramente».
È più facile vincere in bici che col vino?
«Per me era più facile vincere correndo in bicicletta, però anche con il vino riesco ad ottenere dei buoni risultati. Produciamo degli ottimi prodotti e la nostra clientela li apprezzo moltissimo. Sicuramente è molto difficile competere anche in questo settore sempre più in espansione. Bisogna avere valori tradizionali e un alto grado di professionalità nelle tecniche di lavorazione e una profonda conoscenza delle dinamiche di mercato, che permettono di competere con successo in un mondo che vede la concorrenza estendersi a livello globale e un consumatore sempre più attento, preparato ed esigente. Perciò sempre attento a vincere».
Tu sei uno degli uomini più famosi e conosciuti del Trentino, ed eri soprannominato “lo sceriffo“. Se lo fossi al giorno d’oggi cosa metteresti in ordine?
«Farei soprattutto ordine, darei delle regole precise che tutti dovrebbero rispettare. Mi chiamavano "sceriffo" sia per l’età e sia per tenere a bada certe situazioni, talvolta delicate. In un mondo ove determinate circostanze umane non mancano: dalle proteste ai malumori, dagli attriti personali all’eccessiva smania di prevaricare, bisogna essere fermi, seri e con regole e ordine».
È più importante essere campioni nello sport o nella vita?
«Dipende da che punto si guarda, certamente se sei un campione nella vita, lo sei anche nello sport. Lo sport a qualunque livello, consente di sviluppare doti mentali utili per vincere anche nella vita».
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