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Dalida La Giorgia. Ecco il mio "NO" alla violenza di genere



Dalida La Giorgia e la panchina realizzata a Sover




di NICOLA PISETTA


Tutto cominciò da un capitolo della sua vita divenuto un incubo.

Nel 2015 Dalida La Giorgia, una ragazza di Lavis classe 1995 e studentessa universitaria in Interfacce e Tecnologia della comunicazione a Rovereto, lavorava in discoteca. Pur non frequentando il liceo artistico, ma l’allora psico-socio-pedagogico, ha sempre amato l’arte: in particolar modo i mandala e i tatuaggi, riuscendo persino da sola a crearsene uno tutto suo. A 20 anni conobbe un ragazzo che divenne, poi, il suo compagno: Dalida finì in un vortice di umiliazioni e violenze da cui, col tempo, risalì. Ebbe l’idea, in seguito, di dare vita ad un progetto: pitturare le panchine e riportare la sua storia alle comunità.


Dalida, come cominciò esattamente la tua dolorosa storia d'amore "malato"?

«Tutto ebbe inizio nel 2015: conobbi un ragazzo che presto sarebbe divenuto il mio moroso e mi sentivo, nel pieno dei vent’anni, una ragazza libera ed espansiva. Se penso alla data, oggi, è davvero assurdo: ci baciammo l’8 marzo. Lavoravo in discoteca e cominciai, coi mesi che passavano, a sentirmi criticata, etichettata in special modo come la “ragazza facile”: contestava il mio modo di vestire e cercai, quindi, di indossare abiti meno scollati. Mi sentivo giudicata anche nello studio e dovevo porre attenzione alle battute da pronunciare, perché altrimenti “dicevo stupidate”. Le scenate di gelosia, inoltre, diventavano una prassi sempre più diffusa. Ad un certo punto, “se davvero tenevo alla nostra relazione”, mi chiese di andare a convivere e io dissi di sì: mi sentivo, di fatto, vincolata da quella richiesta. Gli eventi, però, nella nuova casa precipitarono ben presto: dai morsi e dai pizzicotti, partivano gli insulti sul mio modo di studiare, ripeteva costantemente che “sono un animale da compagnia”, arrivò agli schiaffi, ai pugni, alle spintonate, alle pedate in testa quando riteneva fossi lenta o in ritardo per uscire di casa, anche solo mentre mi allacciavo le scarpe. Non mancarono anche momenti di strangolamento. Ero in un abisso da cui non riuscivo a risalire».

Come iniziò, poi, il tentativo di risalita?

«Un giorno, di sorpresa, venne a trovarmi una mia amica: in bagno si accorse dei lividi che avevo sul corpo e mi chiese il motivo. Trascorsero un po’ di giorni prima che riuscissi a raccontarle tutto, in maniera confidenziale e approfondita. Successivamente andai a trascorrere le notti da lei e presto mi convinse a parlarne subito con i miei genitori: presi, quindi, maggiore coraggio. Furono d’aiuto anche alcuni miei compagni universitari: finalmente sentivo, da parte loro, i complimenti sulle prestazioni didattiche mai percepiti in casa e mi chiesi: “chi ha, in fondo, ragione?”. Ero ormai stanca, arrivai a pesare 42 chili, perdevo a ciocche i capelli e il ciclo, a causa dello stress, si interruppe per 4 mesi. Era il segnale di un corpo che faticava a lavorare e che io, inizialmente, non ascoltavo. Continuavo a difendere il compagno: purtroppo, in una relazione violenta, è facile che la vittima cerchi di giustificare gli atteggiamenti, pensando ad un possibile passato difficile dell’aggressore o addirittura a sentirsi, addosso, i fasulli sensi di colpa. Alla fine, parlandone con mia mamma, arrivai ad una svolta decisiva, allontanandomi da quella situazione prevaricante».

Come nacque l’idea delle panchine?

«Lavoravo in un pub ad Andalo e un giorno entrò la giunta comunale di Molveno: la mia idea iniziale era quella di creare un fumetto contro la violenza ma, ad un certo punto, mi propose di dipingere una panchina tutta rossa. Non volevo però limitarmi ad un solo colore ma elaborarla. Dal comune di Molveno, dunque, mi diedero la possibilità di dipingere tre panchine: volevo non solo sensibilizzare sulla violenza ma arrivare alla radice del problema. Se una tubatura è rotta, bisogna arrivare al buco per ripararla. La rottura, in questo caso, è l’insufficiente informazione data all’opinione pubblica sul vero significato di amore: si sente ovunque parlare di violenza, mentre sul concetto di amore lo spazio concesso è davvero limitato. I bambini e i ragazzi vedono la violenza come una normalità ed è compito di un genitore definire ciò che è giusto e sbagliato. Dopo le prime panchine ho svolto i primi convegni e grazie alla possibilità che mi è stata concessa dal comune di Molveno, mi ha scritto da Grumes l’assessora Caterina Fassan, chiedendomi di realizzare una panchina per ogni frazione del comune di Altavalle. Di recente, sono passata anche per Sover, parlando ai bambini della scuola primaria locale e alla popolazione, con la presenza della sindaca Rosalba Sighel, proprio lo scorso 8 marzo».


Riporti la tua esperienza anche nei licei?

«Sono stata in una quinta liceo a Cles e ho riportato, in primis, la mia testimonianza. Ho chiesto loro come si vedono, come controllano i propri pensieri, l’occhio che hanno sul mondo, come affrontano la sofferenza adolescenziale, in un’età in cui conoscono i fondamenti dell’amore di coppia. Abbiamo affrontato, inoltre, la tematica della sessualità, di quanto ora sia molto perversa e di quanto non venga spiegata al meglio, a partire anche solo dalle precauzioni. Ho provato, poi, a sottolineare quali tipi di creatività ed energie offre l’atto sessuale e quanto spreco esiste. Prendiamo, per esempio, le donne alla televisione o sui social network quando appaiono scollate: è molto facile che si crei il mito, tra le ragazzine, di emularne l’immagine. O ancora, nei siti porno: regna, al suo interno, tanta perversione».

Quali conseguenze derivano da tutto ciò?

«Un’energia sessuale sprecata, ma l’atto sessuale non è questo. Si può essere liberi, certo, ma non in modo eccessivo: si genera solo caos. Basti anche osservare, attorno a noi, l’attualità sociale per rendersene conto».


Come far capire ai giovani la violenza e le sue forme?

«Esempi concreti: più violenza abbiamo nei pensieri, più le conseguenze si riversano nella nostra realtà. Per amarsi bisogna capire le proprie emozioni, prendersi il tempo, come quando alimentiamo la piantina con l’acqua di cui ha bisogno ogni giorno. Possiamo chiederci: “com’è andata la giornata? Perché sono arrabbiata?”. Sono domande, queste, che non vengono poste: c’è troppa distrazione. Ore davanti ai dispositivi tecnologici spengono questi pensieri che portano, inevitabilmente, ad un mondo irreale, all’impazienza, alla depressione. La pazienza è la chiave, è la virtù dei forti. Capire i nostri errori e non restare impregnati nelle nostre sofferenze del passato e del presente. “Come posso sistemare le cose con me stessa ed essere felice?” La risposta è semplice: il benessere è già dentro e fuori di noi, lo abbiamo gratuitamente. In un momento difficile, guardiamoci attorno: osserviamo le piante, il cielo e stupiamoci della loro bellezza! Noi siamo piccoli e il mondo è così bello: ci offre la possibilità di imparare e di trovare la fonte dell’amore, senza orari né tempo».


I consigli che daresti?

«Innanzitutto la sensazione è quella di trovarsi all’interno di un vortice senza uscita: la rabbia, la tristezza e la depressione mettono confusione nella vita di chi subisce violenza. Entra in gioco un pensiero fisso: “sono sbagliata e non vado bene, altrimenti non subirei” ma non è così. A chi è vittima di violenza, dico che si può uscire dal buco nero: parlarne con una persona di fiducia, che possa comprendere la situazione e chiederle aiuto con una mano. Non è subito facile da affrontare: la sindrome di Stoccolma non permette di staccarsi d’immediato dal carnefice».


In futuro dipingerai nuove panchine nell’area del Trentino orientale?

«Circolava l’idea di un intervento a Levico Terme ma il progetto non è andato a buon fine: finora le panchine realizzate sono tre a Molveno e sei in Val di Cembra. Mi piacerebbe molto poter estendere il progetto oltre la Val di Cembra, tra le comunità geografiche dei lettori de Il Cinque: chiunque può farsi avanti e contattarmi».





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