
di Johnny Gadler
La storia di Bruno Bertoldi che abbiamo pubblicato nel numero scorso ha suscitato molto interesse e così abbiamo scoperto che dalla strage di Cefalonia del settembre 1943 si salvarono anche due soldati di Novaledo: Severino Chiesa e Celestino Dallapiccola...
Quando il 28 ottobre 1940 Benito Mussolini decise di attaccare la Grecia, venne mobilitata la Divisione Acqui di cui facevano parte anche alcuni valsuganotti come Bruno Bertoldi di Carzano, protagonista del libro di Filippo Boni “L’ultimo sopravvissuto di Cefalonia” di cui vi avevamo parlato nel numero scorso, nonché due giovani di Novaledo, Severino Chiesa e Celestino Dallapiccola, entrambi arruolati nel 17° Reggimento Fanteria.
SEVERINO CHIESA, L'INFANZIA SEGNATA DALLA GUERRA

Severino Chiesa era nato il 6 febbraio 1916 a Gablonz, in Boemia, lontano dalla Valsugana perché la sua famiglia – proprio come quella di Bruno Bertoldi che nacque nel campo austriaco di Mitterndorf – era stata sfollata da Novaledo a causa della Grande Guerra.
Come Bruno Bertoldi, rientrato in Valsugana al termine del conflitto mondiale, Severino aveva lavorato nei campi assieme alla famiglia fino alla fatidica chiamata per assolvere all’obbligo del servizio militare che svolse diligentemente dal 13 maggio 1937 fino al giorno dell’agognato congedo, il 19 agosto 1938. Ma il ritorno alla routine quotidiana durò assai poco.
LA PARTENZA PER IL FRONTE
Il 7 settembre 1939, infatti, Severino Chiesa fu richiamato alle armi e assegnato al 17° Reggimento Fanteria della Divisione Acqui con qualifica di Attendente e Fuciliere Assaltatore.
Nel dicembre dello stesso anno Severino, l’amico Celestino Dallapiccola – nato il 20 maggio 1916 e anch’egli di Novaledo – nonché migliaia di altri soldati italiani, furono radunati a Brindisi.
Da qui salparono il 20 dicembre 1940 alle 7.30 del mattino per la campagna di Grecia, voluta da Mussolini al fine di affermare la propria forza e autonomia rispetto all’alleata Germania di Hitler.
Dopo oltre 12 ore di navigazione, la Divisione Acqui sbarcò nel porto albanese di Valona alle 23.45.
Già dal giorno dopo i soldati italiani si ritrovarono a combattere in una zona impervia nel Sud dell’Albania, affrontando non solo nemici più preparati e organizzati di loro – non fosse altro che per la conoscenza dei luoghi – ma anche le insidie rappresentate da paludi e burroni, senza contare l’aggravante delle gelide temperature invernali.
UN BILANCIO DISASTROSO
«Al termine dell’offensiva, tra il 20 dicembre 1940 e il 23 aprile 1941 – riporta lo storico Filippo Boni – il bilancio della Acqui era disastroso: 481 morti, 1163 dispersi, 1361 feriti e 672 congelati, per un totale di 3677 perdite, oltre a circa 1500 militari ammalati e ricoverati in ospedale. In particolare le vittime si concentravano nei reggimenti della fanteria, il 17° (quello di Severino Chiesa e di Celestino Dallapiccola ndr) e il 18°, con i due terzi delle truppe utilizzate che erano state completamente decimate».
VACANZA FORZATA NELLE ISOLE GRECHE
Nel corso della primavera la Grecia fu divisa in tre parti fra Germania, Bulgaria e Italia a cui spettò il controllo della Grecia continentale, delle Cicladi, delle Sporadi meridionali, della parte orientale di Creta e delle isole Ionie: Corfù, Zacinto e Cefalonia. Quando il 29 aprile 1941 gli italiani fissarono la propria base operativa nell’isola greca di Corfù, a tutti parve un sogno perché trovarono un’atmosfera decisamente più favorevole sia dal punto di vista climatico, sia soprattutto sotto il profilo militare. Per circa un anno e mezzo, infatti, vissero una condizione di pace apparente, con i soldati italiani che si integrarono nel contesto locale, intessendo con la popolazione greca rapporti di amicizia e talvolta anche amorosi visto che i mariti di molte donne si trovavano a combattere su fronti lontani.
Anche il successivo trasferimento nell’isola di Cefalonia, avvenuto nel novembre del 1942, iniziò in maniera distesa. In quel frangente il nemico più acerrimo da combattere erano le malattie: tifo, meningite, carbonchio e la malaria.
LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA
All’inizio del 1943 i ricoverati negli ospedali da campo erano quasi duemila, tuttavia la vita quotidiana sull’isola lasciava presagire un’altra stagione tutto sommato tranquilla.
Ma si trattava solo di una quiete… prima della grande tempesta, perché sullo scacchiere europeo la situazione stava precipitando velocemente.
Anziché dal cielo, le prime nubi minacciose si palesarono dal mare: all’inizio di agosto nel porto di Cefalonia approdarono due navi militare tedesche con 1800 uomini. Era la prova inequivocabile che Hitler volesse tenere d’occhio gli italiani, di cui si era sempre fidato poco e da qualche settimana a quella parte ancora meno.
Infatti pochi giorni prima – precisamente nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 – il Gran Consiglio del Fascismo aveva fatto cadere Mussolini, creando così i presupposti per l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la cessazione delle ostilità con gli anglo-americani.
Gran parte degli italiani festeggiarono la caduta del fascismo, ma la guerra era tutt’altro che conclusa. Anzi, il peggio doveva ancora venire. In un clima di grande caos, il re e il generale Badoglio fuggirono a Brindisi, mentre le truppe vennero lasciate per lunghi giorni allo sbando, lacerate da un atroce dubbio: come comportarsi con gli ex alleati tedeschi e, soprattutto, come si sarebbero comportati i nazisti con i “traditori” italiani?
Italiani che, oltretutto, erano divisi tra loro: alcuni avrebbero preferito consegnare le armi, altri invece, incoraggiati anche dai partigiani greci, avrebbero voluto combattere contro i nazisti, mentre un gruppo sparuto avrebbe voluto addirittura disconoscere l’armistizio e passare dalla parte dei tedeschi.
ORDINE INEQUIVOCABILE, STRAGE INDEFINIBILE
Quando il 18 settembre 1943 Hitler diede l’ordine di uccidere tutti i soldati italiani presenti a Cefalonia, iniziò un bagno di sangue che durò quasi una settimana. «Questa è una vicenda terribile – dice Filippo Boni – che riguarda la peggior strage compiuta ai danni di militari italiani durante la seconda guerra mondiale. L’eccidio fu così violento e atroce che il numero dei morti non fu mai chiarito definitivamente. La Divisione Acqui era composta da 11.500 uomini, i caduti in battaglia furono 1.250, i superstiti circa 2.000, mentre le ipotesi sui fucilati e sui prigionieri che nelle settimane a seguire caddero in mare su navi fatte esplodere dalle mine, furono molte: ci fu chi parlò di 2.000, di 5.000, chi di 6.500, chi addirittura di 9 mila vittime. Molti ridimensionano le cifre, parlando di circa 700 fucilati e 1300 annegati in mare. Numeri contrastanti, su cui ancora oggi si discute, che non riducono però la portata del folle crimine contro l’umanità e l’assoluta atrocità di quello che è stato definito il più grande massacro nazista ai danni di soldati italiani».
LA SORTE DI SEVERINO E CELESTINO

Anche i due amici di Novaledo, Severino Chiesa e Celestino Dallapiccola, riuscirono a sopravvivere al massacro. Severino addirittura si salvò fingendosi morto sotto il cumulo di compagni appena giustiziati dai nazisti.
In seguito Severino, con altri militari, fece parte della formazione partigiana “Reparti Italiani” fino al 30 ottobre 1944, partecipando agli scontri conto i tedeschi che si svolsero anche sull’isola di Corfù. Venne congedato il 16 settembre 1945.
Di preciso invece non sappiamo come Celestino Dallapiccola scampò alla morte, forse per un colpo di fortuna come per Severino, oppure per il fatto di essere trentino. «Durante i massacri – racconta infatti Filippo Boni – vennero arrestati cinquemila prigionieri: il generale Lanz richiese al suo superiore Löhr del gruppo di Armate “A” cosa farne: La richiesta giunse nuovamente sul tavolo di Hitler, che apparentemente soddisfatto dello sterminio diffuse un nuovo ordine secondo il quale i soldati che “a tempo debito” avevano disertato dovevano essere trattati come prigionieri di guerra, mentre tutti gli ufficiali dovevano essere immediatamente massacrati. Dal comando potevano essere risparmiati solo fascisti, ufficiali medici, sudtirolesi, dato che dopo l’8 settembre una parte del Sud Tirolo era stata annessa al Terzo Reich, i cappellani, e in un momento successivo anche coloro che provenivano da Trentino e Venezia Giulia».
Di certo sappiamo che Celestino Dallapiccola – come riporta l’archivio storico del ‘900 trentino della Fondazione Museo Storico del Trentino – fu catturato dai tedeschi a Cefalonia e internato in Germania dove rimase in un lager dal 22 settembre 1943 all’8 maggio 1945. Liberato dagli alleati l’8 maggio 1945, fu trattenuto fino al 3 agosto dello stesso anno.
Per questo fu decorato con la Croce al merito di guerra. Anche a Severino Chiesa, per aver partecipato alla Guerra di Liberazione nei “Combattenti Volontari” fu riconosciuta la qualifica di partigiano e gli venne conferita la Croce al merito di guerra.
Entrambi morirono a Novaledo nel 1990.
Ha collaborato Paolo Chiesa