Chi ha superato gli “anta” probabilmente ricorda ancora oggi dov’era e che cosa stesse facendo il 2 agosto 1980, quando lo scoppio di una bomba, lasciata in una valigetta, provocò 85 morti e oltre 200 feriti all'interno della Stazione ferroviaria di Bologna. Fra le vittime potevano esserci anche tre donne legate alla Valsugana...
Una era un'insegnante tedesca che insegnava al Liceo Linguistico Oxford di Civezzano, la quale transitò dalla stazione di Bologna appena un'ora prima che scoppiasse la bomba, mentre altre due donne di origini valsuganotte Rita Stelzer e Nadia Gualtieri, uscirono illese dall’attentato solo per una manciata di secondi e per un paio di metri. Da allora le due, madre e figlia, conservano vivido il ricordo di quella triste giornata, una storia che soltanto due anni fa avevano deciso di raccontare per la prima volta e in esclusiva a un giornale, il nostro, e che qui vi riproponiamo in occasione del quarantesimo anniversario della strage, per non dimenticare.
L'ANTEFATTO
Estate 1979. Rita Stelzer, valsuganotta trapiantata in Svizzera, e la figlia Nadia Gualtieri, come di consuetudine scendono sulla riviera riminese per le vacanze estive. Il loro è un po’ un ritorno a casa, visto che il marito di Rita ha origini romagnole. Il viaggio è lungo e fa caldo. Molto! Madre e figlia si ripromettono che quella sarà l’ultima estate in cui sceglieranno l’automobile per andare in vacanza a Rimini.
«Il prossimo anno – si dicono le due donne – si prende il treno. Si sta più comode, più fresche, ci si stanca meno e, soprattutto, si è più sicure». Perché a viaggiare sull’autostrada, soprattutto nelle giornate del grande esodo, non si sa mai cosa possa accadere.
UN ANNO DOPO
Così nel luglio del 1980 Rita e Nadia mantengono fede al loro proposito, partendo in treno da Zurigo con destinazione Rimini. Sulla riviera romagnola le settimane di vacanza trascorrono piacevolmente. Siamo all’inizio dei mitici anni Ottanta e Rimini sa offrire innumerevoli occasioni di divertimento, fosse anche per una semplice piadina – pietanza allora di nicchia e che si trovava solo in Romagna – consumata in una delle tante trattorie della riviera, dove scorrono fiumi di trebbiano e sangiovese, con l’immancabile sottofondo musicale del liscio.
Chissà perché, ma nelle giornate spensierate il tempo sembra scorrere più velocemente e così in men che non si dica arriva il momento di rifare le valigie.
Ecco allora che la mattina di sabato 2 agosto 1980, di buonora, Rita e Nadia raggiungono la stazione ferroviaria di Rimini per salire sul treno che le riporterà a casa, in Svizzera. Contemporaneamente, a Bologna, anche altre persone sono intente a preparare le loro valigie. Alcune, in particolare, lo fanno in maniera accurata, con una meticolosità che – potessimo solo vederli – non esiteremmo a definire quasi maniacale. Una volta sistemato il loro pesante bagaglio a mano, escono e si dirigono in centro città, in Via Pietro Pietramellara, da dove svoltano in una piazza chiusa su tre lati: è quella della stazione centrale di Bologna. Dopo aver varcato la soglia del grande edificio ottocentesco, si confondono fra le numerose persone che già affollano la sala d’attesa. D’altronde è il primo sabato di agosto, per molti si tratta del primo giorno di ferie, il che coincide con la partenza verso i luoghi di villeggiatura: la riviera adriatica, ma anche la montagna. Alle 11.16, infatti, deve partire un vagone speciale prenotato dall’Opera diocesana di Bologna con destinazione la colonia montana di Dobbiacco.
Mentre tutti si affrettano a consultare il tabellone degli arrivi e delle partenze, cercando il binario giusto, i nostri misteriosi viaggiatori si muovono con assoluta calma. Forse perché non devono prendere alcun treno.
Difatti, con circospezione ma anche con grande naturalezza per non destare sospetti, appoggiano il loro pesante fardello su un tavolino portabagagli situato proprio sotto il muro portante dell’ala ovest della stazione. Poi, come erano venuti, se ne vanno con altrettanta tranquillità, facendosi inghiottire dal traffico della città di Bologna.
UNA PIRAMIDE DI LATTINE
Nel frattempo Rita e Nadia alla stazione di Rimini sono salite sul treno 13534 Adria Express.
Si tratta di un convoglio speciale per i vacanzieri, che viaggia solo in estate e che collega Ancona a Basilea. Com’è facile intuire, il treno è tutto esaurito. Rita e Nadia si siedono nei posti che hanno prenotato, nel terzo scompartimento. Assieme a loro vi sono altre 14 persone svizzere, tutte però di origine italiana.
Il treno ora sta fendendo la pianura padana. Dal finestrino Rita osserva distese di campi coltivati e ordinati, punteggiati di tanto in tanto da imponenti casali e case coloniche, cui si alternano, in prossimità delle stazioni, centri abitati più estesi e complessi da decifrare.
Fuori fa già caldo e anche all’interno del convoglio la temperatura, pur rimanendo accettabile, sale. Assetati, Nadia e gli altri ragazzi del gruppo incominciano a bere le loro bibite preferite e poi, per ingannare il tempo del viaggio, con le lattine vuote della Coca-Cola e della Fanta decidono di costruire una piramide. Due, invece, appaino le torri che si profilano all’orizzonte. Sono quelle di Bologna, capoluogo dell’Emilia – Romagna, dove l’Adria Express sta per fare tappa.
IL BOATO E L'APOCALISSE
Approssimandosi alla pensilina, il macchinista rallenta la corsa del convoglio procedendo a passo d’uomo. Sono le 10.25 e il treno è in ritardo di quasi un'ora. Un ritardo che per alcuni risulta fatale.
«Il treno non si era ancora fermato – ci raccontano con emozione Rita e Nadia, rievocando quel 2 agosto 1980 come fosse oggi – quando udimmo un boato impressionante, seguito da un’enorme fiammata e da una pioggia di detriti».
«La nostra piramide di lattine – ricorda Nadia – era rovinosamente caduta a terra, ma non era stata certo quella a provocare il terribile boato. Le persone si guardavano sorprese più che spaventate, chiedendosi cosa fosse successo».
«Ci volle qualche minuto – prosegue Rita – prima che capissimo ciò che stava accadendo. Dopo un po’, infatti, qualcuno cominciò a gridare: “è stata una bomba, è stata una bomba”! Qualcuno provò anche ad aprire il finestrino per vedere meglio l’accaduto, ma il controllore intervenne in maniera perentoria, intimando a tutti di rimanere calmi, di stare seduti e di non aprire i finestrini o le porte. Per nessun motivo! Fu in quel momento che per noi l’iniziale stupore cominciò a tramutarsi in angoscia».
In quei concitati istanti il timore di tutti è che la brutta faccenda non sia ancora finita e che, nascosta da qualche parte, possa esserci una seconda bomba pronta ad esplodere.
«Infatti – ricorda Rita – sbirciando dal finestrino avevamo intravisto, un paio di binari più in là rispetto a quello su cui ci trovavamo, una forma voluminosa scura che non riuscivamo a capire bene cosa fosse di preciso e per questo eravamo molto in apprensione».
Intanto, fuori dal treno, lo scenario si presenta apocalittico: un’area di circa 50 metri della stazione è stata completamente rasa al suolo.
Tutt’intorno cumuli di macerie, strutture metalliche crollate informi, schegge di vetro e detriti vari. E poi, una nuvola di polvere bagnata da fiumi di sangue. Tanto sangue, perché i morti si contano già a decine, mentre sono centinaia le persone che presentano ferite non solo per le schegge volate nell’aria come proiettili, ma anche per via delle ustioni provocate dalla deflagrazione.
La prima ambulanza giunge sul posto alle 10.28, appena tre minuti dopo la tragedia. Altre arriveranno nei momenti successivi, ma non bastano. Per trasportare i feriti si utilizzano anche i taxi, mentre sugli autobus si caricano i cadaveri da portare all’obitorio. Alla fine si conteranno 85 vittime e oltre 200 feriti.
PER POCHI CENTIMETRI
«È stata come una bomba d’aereo» commenta a caldo Franco Ricciardi, tenente colonnello, comandante del nucleo di polizia giudiziaria di Bologna, fra i primi ad intervenire sul luogo dell’attentato. Del resto in quella valigia, abbandonata nella sala di attesa, i terroristi avevano collocato oltre 20 kg di esplosivo. Questo, però, Rita e Nadia ancora non lo sanno, così come ignorano che i primi due vagoni del loro treno sono stati direttamente colpiti dall’esplosione, provocando morti e feriti. Loro sono sedute nel terzo vagone, rimasto pressoché integro, inconsapevoli della carneficina che le circonda.
Sentono lo straziante ululato delle sirene di ambulanze e polizia, nonché il volteggiare in cielo degli elicotteri.
UNA MACABRA VISIONE
Tra la polvere sollevatasi all’esterno, che prende alla gola tutti i soccorritori, e la paura ad affacciarsi al finestrino, Rita e Nadia non riescono a vedere molto della tragedia che si sta consumando. Ma quel poco che vedono è decisamente già troppo.
«Ad un certo punto – ci racconta Rita con palpitante emozione – dal finestrino ho scorto un ferroviere che camminava disorientato fra le macerie tenendo in mano qualcosa. Allora i ferrovieri avevano la camicia celeste, solo che la vedevo chiazzarsi a macchia d’olio di un colore rosso scuro. E non ne comprendevo il motivo. Poi vidi meglio e mi resi conto che teneva la mano di un bambino che colava sangue. Una scena che non potrò mai più dimenticare in tutta la mia vita».
IL VIAGGIO CONTINUA
Dopo alcune ore di crescente angoscia, rinchiuse nello scompartimento con un caldo infernale e senza acqua, per Rita e Nadia vi è la risalita dagli Inferi e il ritorno alla vita.
Con un altro locomotore si agganciano le carrozze del treno rimaste illese dallo scoppio e l’Adria Express può ripartire per il suo viaggio. L’allegria del mattino è ovviamente svanita; i passeggeri sono ancora frastornati per l’accaduto e preoccupati dal fatto che in tutte le stazioni dove il treno fa sosta, non è dato loro modo di scendere per mettersi in contatto con i familiari, i quali – verosimilmente – appresa la notizia dai telegiornali, sono tutti in ansia.
RITORNO ALLA VITA
Nel frattempo, infatti, i familiari di Rita e Nadia sono molto in apprensione. «Mia sorella – ci racconta Rita – aveva sentito la notizia, ma in quegli anni le informazioni arrivavano con il contagocce, non era come ora che c’è la possibilità di sapere tutto in tempo reale. Così mia sorella andò alla stazione ferroviaria e chiese al capostazione se avessero ricevuto comunicazioni ufficiali sull’accaduto. Il capostazione le rispose che non avevano ancora ricevuto la circolare, ma sicuramente la notizia era vera».
Rita e Nadia arrivarono a Zurigo solo a tarda sera e scendendo dal treno si meravigliarono non poco di trovare i parenti ad attenderle: «Ero talmente sotto choc – racconta ancora Rita – che chiesi a mio nipote: “Ma tu che ci fai qui?”».
«Solo il giorno dopo guardando i servizi in Tv – ci spiegano all’unisono Rita e Nadia – ci rendemmo davvero conto del pericolo che avevamo corso e del fatto che sarebbe bastata una manciata di secondi in più per farsi trovare sulla traiettoria dell’onda d’urto provocata dall’esplosione».
MIRACOLATE
Per quanto sulla strage di Bologna, a differenza di altre stragi, sia stata raggiunta una verità perlomeno giudiziaria, sull’attentato sembrano rimanere ancora quelle zone d’ombra che contraddistinguono tutti i grandi misteri italiani.
L’unica cosa certa e inoppugnabile, se vogliamo, è il numero delle vittime e il fatto che Rita e Nadia possano considerarsi delle vere miracolate.
Da quel tragico 2 agosto 1980 sono passati ben 40 anni, ma le due donne non hanno mai dimenticato l’incredibile boato che seminò morte e distruzione in una giornata che doveva essere spensierata e che invece segnò per sempre le loro vite.
«Ora che ci pensiamo – ci dicono le due donne a conclusione dell’intervista, guardandosi un po’ stupite per il fatto di rendersene conto per la prima volta soltanto adesso, come non fossero passati 40 anni – sai che da quel 2 agosto 1980 a Rimini non ci siamo mai più tornate?».