di GIUSEPPE FACCHINI
Edoardo Bennato è tornato a Trento il 17 maggio scorso con un concerto straordinario che ha emozionato il pubblico all’Auditorium Santa Chiara “sold out” e che resterà indimenticabile. Il grande artista è stato protagonista di una serata di energia e rock allo stato puro, con due ore e quaranta di canzoni, sintesi di un percorso artistico di grande livello comprese quelle dell’ultimo periodo, canzoni sempre attualissime come fossero state scritte ieri. È sempre stato avanti Edoardo Bennato, dotato di qualità uniche, come l’ironia. I musicisti che lo hanno accompagnato sono un gruppo di valore assoluto. Il pubblico ha risposto con un entusiasmo fortissimo dalla prima canzone fino a “Un giorno credi” e “Nisida”.
Edoardo, come vivi questo periodo storico molto particolare?
«La musica vista dall’esterno è qualcosa di piacevole ed allettante e molti ragazzi sognano questo mestiere, ma è popolata di personaggi collodiani, gatti, volpi, mangiafuochi, grilli parlanti. Nonostante il disagio che si vive, io continuo a fare questo mestiere perché l’obiettivo è di dare buone vibrazioni alle persone. Anche a Trento ho cercato di dare energia positiva e propositiva e mai come in questo periodo ne abbiamo bisogno».
Prima la pandemia, poi la guerra...
«Nelle righe dei miei testi ci sono provocazioni, volenti o nolenti siamo animali pensanti e condannati a riflettere su noi stessi, sulla nostra condizione di singoli individui e di collettività dove in questo momento siamo allo sbando».
Uno sbando intergenerazionale...
«Sì, gli anziani hanno visto crollare i loro sogni e ideali, mentre i giovanissimi hanno capito che è meglio darsi da fare e vivere il presente senza preoccuparsi troppo del futuro, anche perché da un momento all’altro non si capisce quello che può succedere. Si passa da epidemie a venti di guerra, non vi nascondo che c’è un certo disagio quando salgo sul palco e vedo tutti quanti imbavagliati, con le guardie che osservano come un penitenziario se il bavaglio è a posto. Io sono sempre stato molto provocatorio, nel ’75 a Rovereto un manipolo di sedicenti rivoluzionari incendiava il manifesto con il mio progetto di piano regolatore. All’epoca c’era il vezzo di voler imporre il prezzo politico, ma nel mio caso il prezzo era già politico e quindi non rimanevano che gli insulti. Loro pensavano di trovare il divo circondato da manager e impresari invece trovavano un pazzo scalmanato ancora più imbestialito di loro. Adesso siamo passati da un estremo all’altro per cui arrivano tutti in fila, ordinati, imbavagliati e disposti a pagare 30, 40, 50, euro per vedere l’idolo di turno».
Le tue canzoni sono sempre attuali...
«L’anno scorso è uscita la riedizione de “La torre di Babele” e sembra di oggi, e così come tante altre “Bravi ragazzi”, dove si parla di fronteggiare la situazione in nome della gente. La nostra sensazione è che i partiti pensino solo a difendere loro stessi. Allo stesso tempo il mio ultimo album del 2020“Non c’è” con in copertina la prima pagina di un quotidiano in cui i testi delle canzoni sono gli strilli degli articoli. Io sono ottimista, ho una figlia adolescente, il futuro mi preoccupa, mi intriga e a volte mi terrorizza. Conosco i miei fan più di quanto conoscano me, sembra un paradosso ma è così. “A cosa serve la guerra” sembra di oggi e l’ho scritta nel 2003».
In concerto proponi tante formule diverse...
«Ho diverse formule musicali, quella del Quartetto d’archi perché ho dei pezzi rossiniani tipo “In file per tre”, “Dotti medici e sapienti”. In certi teatri come al San Carlo di Napoli utilizzo questa formula o anche l’orchestra sinfonica. Ma mi propongo anche con il gruppo rock o one man band da solo sul palco, con chitarra, armonica, kazoo, tamburello. C’è un continuo cambio di scena, i ritmi sono diversi rispetto a una volta, il cambio di scena crea ancora più spettacolarità con tre formule diverse».
In concerto diverti tantissimo ma sempre facendo pensare...
«Sono forse come Pinocchio, sbandato e tartassato ma anche tartassante, si fa fregare ma a volte reagisce come nel caso del Grillo parlante. Collodi più di un secolo fa ha fatto un ritratto della società italiana molto fedele, che anche ora è sempre più squilibrata da nord a sud, una nazione ingovernabile dove bande di sedicenti politici si contendono il potere senza esclusione di colpi. Ogni esercito ha il comandante che si merita e viceversa. Non è un problema di buoni e cattivi, nel mio libro “Girogirotondo” con tutti i miei limiti ho cercato di spiegare la situazione che è associata al parametro latitudinale. Ci sono contrasti e gli echi di guerra appartengono a questo contrasto, se riuscissimo a trovare un parametro che li elimini sarebbe tanto di guadagnato per i nostri figli».
Cosa ti emoziona a livello personale e musicale?
«Vedere mia figlia che cresce, che diventa adolescente e che è brava in tutto, non c’è bisogno di essere severi, sa quello che deve fare. Fin da ragazzino mi emoziona la musica rock americana, grandi maestri con cui ho avuto la fortuna di suonare tipo Bo Diddley o BB King, ma anche i Green Day o i Rem. La lingua ufficiale del rock è l’inglese e chi non la usa ha molte difficoltà. Avremmo potuto fare di più, se esistesse un ministero della cultura che porta i ragazzi a vedere il Barbiere di Siviglia sarebbe importante perché Rossini è l’antesignano dei musical americani. Io cerco sempre di provocare, ma provoco anche me stesso come in “Cantautore”, su quello che dovrebbe essere il mio ruolo ed evidenziare i nostri difetti i nostri tic singoli o collettivi. E come disse Totò “senza nulla a pretendere”».
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