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Daria De Pretis: dei diritti e della libertà





di Emanuele Paccher


La giudice della Corte Costituzionale Daria De Pretis in questa intervista ci parla a tutto campo: dal fine vita al premierato...


Dai cinque ai dodici anni di reclusione: è questa la pena edittale attualmente prevista per chi aiuti una persona a suicidarsi. 

Per alcuni casi specifici, tuttavia, è prevista una disciplina ad hoc, introdotta nel 2019 dalla Corte costituzionale. Si tratta dei pazienti affetti da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili e tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale, ma con piena capacità di intendere e di volere e che, per porre fine alla propria esistenza, chiedono e ottengono l’aiuto di un’altra persona. 

L’aiutante al suicidio, in questi particolari casi, non commette alcun reato. 

Il caso da cui la Consulta prese le mosse fu quello di Dj Fabo, paziente marchigiano di 43 anni divenuto tetraplegico a causa di un grave incidente.

L’ex europarlamentare Marco Cappato decise di attuare il desiderio di morire di Dj Fabo, accompagnandolo in una clinica svizzera nella quale, in piena autonomia, si somministrò le sostanze che posero fine alla propria vita. 

Quello di Cappato fu considerato, almeno da taluni, come un gesto umano, ma rimaneva un reato secondo l’ordinamento italiano. Il tribunale che doveva decidere sul suo caso sospettò però l’incostituzionalità della norma del codice penale da applicare. 

Investita del caso, la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità dell’articolo 580 nella parte in cui prevedeva la punibilità delle condotte come quella di Marco Cappato

Tra i quindici giudici che scrissero quella celebre sentenza figura il nome della trentina Daria De Pretis

Nata a Cles il 31 ottobre 1956, De Pretis è stata nominata giudice della Corte costituzionale dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 28 ottobre 2014, e dal 29 gennaio 2022 all’11 novembre 2023 ne è stata Vicepresidente. 

Con lei abbiamo parlato di temi come il fine vita, ma anche di attualità, della riforma volta a introdurre il “premierato” e di alcuni ricordi personali. 


Professoressa De Pretis, come valuta la sua esperienza alla Corte costituzionale?

«Un’esperienza straordinaria e preziosa. L’onore e la responsabilità di servire il mio Paese prima di tutto. Come giurista mi ha consentito di vivere sul campo il diritto costituzionale, misurandomi con la complessità del compito di valutare la conformità delle leggi con la Costituzione. Mi ha offerto anche una ineguagliabile lezione di metodo. In pochi altri consessi, credo, è richiesto ai componenti uno sforzo così grande di confronto con gli altri sulla base degli argomenti della ragione, e di ricerca di un punto di approdo quanto più possibile comune. Ecco, per quanto sia di carattere portata alla composizione dei conflitti, posso dire che l’esperienza alla Corte costituzionale mi ha fatto comprendere come questo approccio sia decisivo nelle questioni che riguardano il vivere sociale, e quanto possa essere fruttuoso».

La Corte costituzionale ha il compito di sindacare la conformità alla Costituzione di tutte le fonti di rango primario, cioè le leggi, i decreti legge e i decreti legislativi, quando tale questione le venga sottoposta da un altro giudice. Un ruolo delicatissimo dunque. Ma secondo Lei si tratta di un organo costituzionale conosciuto a sufficienza?

«No. Secondo un sondaggio di qualche anno fa soltanto il 15% delle persone conosce la Corte costituzionale. È il segnale di una scarsa cultura costituzionale. Forse gioca anche il fatto che nel nostro sistema manca un accesso diretto al giudice costituzionale, come c’è invece in Germania, dove ogni cittadino può rivolgersi direttamente al Tribunale costituzionale quando ritenga di essere stato leso in uno dei suoi diritti costituzionali. In Italia sono invece solo i giudici comuni i “gatekeeper”, i guardiani dei cancelli della giustizia costituzionale, nel senso che solo loro possono rivolgersi alla Corte costituzionale quando dubitano della costituzionalità di una norma che devono applicare in un processo. Io sarei favorevole all’introduzione di un accesso diretto anche in Italia». 


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Non ci sarebbe il rischio di ingolfare l’attività della Corte?

«Non per forza. Si potrebbe prevedere un filtro, per esempio con una prima scrematura da parte di sottocommissioni. E i vantaggi sarebbero di allargare lo spettro delle possibili questioni e di dare ai cittadini una maggiore vicinanza del giudice dei loro diritti».

Fino a che punto può spingersi il sindacato della Corte? Vezio Crisafulli, giurista e costituzionalista del secolo scorso, parlava di “rime obbligate” per spiegare l’ambito entro il quale la Consulta deve mantenersi nelle sue sentenze. Passare dalla teoria alla realtà concreta può però essere difficile, con il rischio incombente di invadere il ruolo del Parlamento. Cosa ne pensa?

«Questo è un punto molto delicato. Ogni volta che ci si trova di fronte a una scelta legislativa che mette in discussione non una regola costituzionale precisa, ma un principio o un valore costituzionale, la Corte deve effettuare una valutazione che è inevitabilmente soggettiva del suo contenuto. Ciò che per me è in contrasto con esso può non esserlo per un altro. A questo si aggiunge il fatto che i beni protetti dalla Costituzione sono tanti e possono essere in contrasto tra loro. Pensiamo a cosa è accaduto durante la pandemia. Erano in gioco due valori costituzionali in conflitto: la libertà personale e la tutela della salute. Pensiamo alle scelte che limitano la libertà personale in funzione della tutela della salute, alle questioni sui vaccini obbligatori su cui possono esservi sensibilità diverse sulla priorità di un interesse sull’altro. Poi rimane il fatto che la Corte ha il dovere di rispettare la discrezionalità del legislatore, le cui scelte possono essere sindacate solo se appaiono manifestamente irragionevoli».


I confini sono dunque mobili? 

«I confini stanno nella saggezza della Corte di autolimitarsi, ma anche nella sua consapevolezza di dover tutelare dei diritti. Nel caso del fine vita la Corte è intervenuta in un campo che dovrebbe spettare al legislatore, ma lo ha fatto perché ha sentito di non potersi sottrarre a ciò che la Costituzione esigeva: rispettare sì lo spazio proprio del legislatore, ma tutelare i diritti fondamentali della persona. In questo contesto anche i tempi e le procedure hanno il loro valore. Di regola la Corte, quando si trova in frangenti di questo tipo, usa la tecnica del monito e invia avvertimenti forti al legislatore. Così è stato di recente, per esempio, nel caso dei figli di genitori dello stesso sesso, affrontando il problema della loro tutela. La Corte – secondo cui comunque la pratica della maternità surrogata è ritenuta gravemente lesiva della dignità della donna e delle relazioni umane – ha detto: questi bambini hanno gli stessi diritti di tutti gli altri bambini, ma su questo non posso essere io a decidere, è compito del Parlamento. Ma se il legislatore continua a non fare niente, arriverà prima o poi un momento in cui la Corte non potrà più non pronunciarsi. Aver già lanciato dei moniti legittimerà la Corte a intervenire in maniera più incisiva».

La colpa è dunque dell’inerzia parlamentare?

«Non è così semplice, si tratta di un equilibrio non facile. Non bisogna demonizzare il Parlamento, la sua inerzia non è priva di giustificazioni. Su temi fortemente divisivi, come sono spesso quelli etici, anche all’interno delle stesse forze politiche è più difficile trovare un punto d’accordo. Per la Corte, composta da 15 persone, con sensibilità diverse ma con un retroterra tecnico – giuridico comune, è meno difficile trovare un punto di intesa».

 


Torniamo al tema del suicidio assistito. Cosa ricorda dell’iter decisionale che ha portato alla famosa sentenza della Corte?

«Il nostro ordinamento penale punisce severamente l’aiuto al suicidio. Alla Corte arrivò il caso di una persona, nota come Dj Fabo, rimasto, a seguito di un incidente, tetraplegico, quasi cieco e in preda a sofferenze acutissime. Era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, ed era pienamente capace di intendere e di volere. Il suo desiderio era di cessare di vivere e porre così fine alle proprie sofferenze. La persona che lo aiutò a recarsi in Svizzera per esaudire questo desiderio, al suo rientro in Italia, si autodenunciò. Il giudice penale sollevò alla Corte costituzionale la questione di costituzionalità della norma che punisce l’aiuto al suicidio, perché potenzialmente in contrasto con il diritto all’autodeterminazione e a una serie di regole costituzionali che ruotano attorno alla libertà personale. La Corte si è pronunciata sottolineando prima di tutto la legittimità del reato di aiuto al suicidio: chi aspira a suicidarsi è in una condizione di fragilità ed è giusto che l’ordinamento la tuteli nel modo più rigoroso. Ha ritenuto tuttavia che ci possono essere casi nei quali l’aspirazione a porre fine alla propria vita merita di essere protetta. Così era in particolare nel caso che ci era stato sottoposto. In quel caso, ricorrendo quelle particolari condizioni, punire chi aveva prestato aiuto era in contrasto con la Costituzione».

Il Parlamento aveva avuto occasione di pronunciarsi?

«Sì, la norma appariva incostituzionale nella parte in cui si applicava anche per quel caso specifico. Quel vuoto legislativo andava però colmato dal Parlamento, perché su temi così complessi è importante che la regolazione nasca dal sentire di chi rappresenta il popolo. Per questo la Corte si fermò, e rinvio di un anno la trattazione della questione. Il Parlamento avrebbe avuto così il tempo per legiferare. In quell’anno però non fece nulla, non iniziò neppure a fare qualcosa. Per questo la Corte si trovò a dover prendere una decisione che in sostanza era una regolamentazione della materia, che si scelse di ritagliare del tutto sul caso dal quale nasceva. Era necessario decidere per tutelare un diritto garantito dalla Costituzione, che nel silenzio della legge sarebbe rimasto leso».

Un altro tema molto attuale è il premierato, formula con cui si allude all’introduzione di una legittimazione popolare diretta del Presidente del Consiglio. Qual è la sua opinione al riguardo?

«La riforma di cui si discute prevede l’elezione diretta del Capo del Governo. Il che di per sé non è un’eresia. Ci possono essere diverse opinioni al riguardo e sono numerosi gli Stati che lo prevedono. La stranezza della proposta di cui parliamo però è un’altra, perché prevede l’elezione diretta dell’esecutivo in un sistema parlamentare, nel quale l’esecutivo nasce dal legislativo. La singolarità, dal punto di vista istituzionale, è che si elegga direttamente l’esecutivo ma si mantenga il rapporto di fiducia con il Parlamento. La logica del sistema parlamentare è che il Governo nasca e muoia nel Parlamento. Nel nostro sistema italiano, inoltre, è decisivo l’intervento del Presidente della Repubblica, il cui spazio di azione si allarga o si riduce in ragione della maggiore o minore chiarezza del quadro politico. Il sistema offre margini di elasticità che possono rappresentare sia una forza che un limite. Io personalmente ritengo che il sistema parlamentare abbia dei grandi vantaggi, tanto più nei periodi di crisi, e credo che il Presidente della Repubblica svolga un ruolo prezioso, come l’esperienza ha dimostrato. Ma a parte questa, che è un’opinione, tornando alla riforma proposta come detto vedo un rischio nel mettere insieme l’elezione diretta del capo del governo e il mantenimento della fiducia parlamentare: quello di depotenziare il Parlamento».


Lei ha conosciuto in prima persona molte personalità di prim’ordine della Repubblica italiana, tra cui il presidente Napolitano, che l’ha nominata come giudice costituzionale. Che ricordo ha del presidente Napolitano?

«Ho il ricordo di una personalità straordinaria. Un privilegio averlo conosciuto. In ogni occasione in cui mi è capitato di incontrarlo mi ha colpito il rigore, l’attenzione per l’interlocutore, la capacità di cogliere immediatamente il punto di ogni questione. Napolitano non è stato solo un grande politico, un formidabile uomo delle istituzioni, uno statista riconosciuto a livello mondiale. Era anche un finissimo intellettuale. Ricordo l’ultima volta che sono andata a trovarlo nel suo studio al Senato. Mi regalò la raccolta dei saggi politici di Thomas Mann, “Moniti all’Europa”, appena ripubblicato con una sua ricca introduzione. Ecco, un uomo ultranovantenne, che era stato due volte Presidente della Repubblica, si misurava ancora con la fatica della scrittura e si confrontava con il grande scrittore tedesco sui temi che gli erano più cari, dell’Europa come luogo della libertà e della democrazia».

Come ci si è appassionata e cosa rappresenta per Lei il mondo giuridico? 

«Il diritto regola il vivere sociale, le relazioni fra le persone, quelle private, economiche, sociali. Il diritto pubblico poi, che è quello di cui mi sono sempre occupata, regola le istituzioni, la politica. Lo Stato di diritto, cioè l’idea che anche il potere è sottoposto alle regole, è la prima garanzia della libertà. Il diritto può diventare strumento di uguaglianza, come dice la Costituzione che impegna la Repubblica a superare gli ostacoli a una vera uguaglianza fra tutti i cittadini. Ecco, questo mi appassiona del diritto, il fatto che è un modo per conoscere la realtà, ma è anche un modo per cambiarla, possibilmente in meglio».



DARIA DE PRETIS: UN CURRICULUM MOLTO PRESTIGIOSO

Daria de Pretis (Cles, 31 ottobre 1956) è una giurista italiana, giudice della Corte costituzionale della Repubblica Italiana dal 2014 e vicepresidente dal 29 gennaio 2022 all'11 novembre 2023. Originaria di Cagnò, in Val di Non, ha frequentato il liceo a Trento e si è laureata in giurisprudenza all'Università di Bologna nel 1981.

La sua tesi di laurea sui "Profili giuridici dell'amministrazione statale dell'energia", relatore Prof. Fabio Alberto Roversi Monaco, risultava vincitrice del premio "U. Borsi" (Fondazione Borsi - Bologna) per la migliore tesi in diritto amministrativo. A Bologna ha iniziato il suo percorso accademico, proseguito poi nell'Università di Trento, dove è stata ricercatrice, professoressa associata e, dal 2000, professoressa ordinaria di diritto amministrativo. Ha insegnato nella Facoltà di Giurisprudenza e nella Facoltà di Sociologia. È stata direttrice della scuola di specializzazione per le professioni legali delle Università di Trento e di Verona. Nel frattempo ha praticato la professione forense come avvocata amministrativista, iscritta all'Ordine degli Avvocati di Trento (1982-2012). Il 28 febbraio 2013 è stata eletta rettrice dell'Università di Trento, carica che ha mantenuto fino alla nomina a giudice costituzionale. Nell'aprile del 2014 è stata eletta componente della giunta della CRUI. Nello stesso periodo ha coordinato la commissione di studio istituita dal MIUR sul sistema di autovalutazione degli atenei. Per l'impulso dato come rettrice alla collaborazione fra le tre università dell'Euregio Tirolo-Alto Adige-Trentino, è stata nominata senatrice accademica onoraria della Libera Università di Bolzano (2014) ed Ehrensenatorin della Leopold-Franzens-Universität di Innsbruck (2015). Il 18 ottobre 2014 è stata nominata giudice costituzionale dal presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano ed è entrata in carica l'11 novembre 2014, quando ha giurato al Quirinale davanti alle più alte cariche dello Stato. Il 29 gennaio 2022 è stata nominata vicepresidente della Corte, insieme a Silvana Sciarra e Nicolò Zanon, dal neoeletto presidente Giuliano Amato. Il 20 settembre 2022 è stata confermata vicepresidente assieme a Nicolò Zanon da Silvana Sciarra, appena eletta presidente. L'11 novembre 2023 è cessata dalla carica di giudice costituzionale e quindi anche di vicepresidente della Corte.

È stata presidente dell'Istituto italiano di Scienze Amministrative, è fra i fondatori di Italian Journal of Public Law, la prima rivista giuridica italiana interamente in inglese. È membro del Kuratorium del Max-Planck-Institut für ausländisches öffentliches Recht und Völkerrecht di Heidelberg, del Board dell’Italian Chapter of ICON•S (The International Society of Public Law) e dello Steering Committee della Scuola di specializzazione in Studi sull’amministrazione pubblica (SPISA) dell’Università di Bologna. Ha fatto parte del direttivo di varie associazioni, è autrice di monografie e saggi nel campo del diritto amministrativo, del diritto pubblico più generale e del diritto dell'Unione europea. Fa parte di vari comitati editoriali e scientifici di riviste e collane giuridiche.



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