di JOHNNY GADLER
Roma, anni '80, quartiere Appio Tuscolano. La famiglia Carbutti – papà Valter detto Valterino, mamma Daniela, le figlie Marzia e Martina – conduce una vita come tante altre, cavalcando l’onda di quei magnifici anni rampanti, dove tutto sembra possibile.
Anche che l’Italia, dopo quasi mezzo secolo, vinca il mondiale di calcio. O che la "magica Roma" conquisti il suo secondo scudetto per la gioia del popolo giallorosso a cui appartiene anche Valterino, una persona come tante: famiglia, casa e un lavoro da tassista – anzi, tassinaro come si dice a Roma – di cui va fiero e che svolge con passione, intrattenendo i clienti con la sua simpatica romanità. Sul suo mitico taxi giallo salgono numerosi personaggi famosi, trasformandolo in una sorta di “Maurizio Costanzo Show” viaggiante.
Per tutti ha una battuta pronta, un pensiero carino, una premura rara e innata. Che siano ricchi e famosi, o poveri ed emarginati, per lui non fa alcuna differenza.
Anzi, mostra una sensibilità particolare proprio nei confronti dei più deboli, per le persone disagiate.
Nonostante siano gli anni della pubblicità martellante con i suoi slogan rassicuranti – dalla “Milano da bere” a “Dove c’è Barilla c’è casa” – Valterino sa fin troppo bene che la vita non riserva solo pagine belle e patinate. Dai risvolti, infatti, spesso possono emergere problemi, tensioni, conflitti, oppure insorgere – cosa più temibile – delle malattie.
Nell’estate del 1986 Valterino è cupo – e non perché la sua Roma abbia gettato alle ortiche la possibilità di vincere il terzo scudetto – ma perché sua figlia minore, Martina, da qualche tempo presenta seri problemi di udito. Disturbo che forse, verrebbe da pensare con il senno di poi, la porta a sviluppare un modo di "sentire" e di "percepire" del tutto diverso, di cui però lei avrà piena contezza solo decenni dopo. In quel momento la piccola ha bisogno di cure e deve fare degli esami specialistici a Milano. Per non farla preoccupare Valterino s’inventa l’idea di fare una bella vacanza assieme al Nord, trasformando tutto in un gioco, come Roberto Benigni ne “La vita è bella”, tanto che quel viaggio rimane uno dei più bei ricordi di Martina.
Passano gli anni e la famiglia Carbutti si trasferisce a Pomezia, a una trentina di chilometri da Roma, alla ricerca di una vita più tranquilla. Pur tra qualche scontro generazionale e le diversità di veduta tra le due sorelle, tutto sembra scorrere nella norma. Un giorno, però, Valterino scopre che in lui è innescata una bomba ad orologeria che può ucciderlo da un minuto all’altro. E, siccome le disgrazie non vengono mai da sole, contemporaneamente la moglie Daniela si ammala gravemente, tanto da dover rimanere in una clinica per oltre sei mesi, riuscendo poi a guarire in maniera quasi miracolosa.
Ma scampato un pericolo, Valterino sa bene che anche su di lui pende una spada di Damocle. Dovrebbe operarsi, ma decide di non farlo e per dieci anni continua a condurre la vita di sempre, fino a quando all’improvviso muore.
Un fulmine a ciel sereno per la famiglia Carbutti, in particolare per Martina. Lei di solito non sogna mai. Ma dopo la scomparsa del padre inizia a vederlo in sogno sempre più frequentemente. In sogno Valterino non solo la consiglia e la rassicura, ma le affida anche dei messaggi per amici e parenti, fino a svelarle delle vere e proprie profezie.
Tra padre e figlia s’instaura così "un filo invisibile" che nel volgere di poco tempo diventa anche il titolo di un libro, scritto da Martina, assieme alla sorella Marzia, innanzi tutto per metabolizzare il proprio dolore, ma nel contempo anche per aiutare altri ad elaborare il lutto dopo la perdita di un proprio congiunto.
Il messaggio del libro "Un filo invisibile" (Passione Scrittore Selfpublishing) è molto chiaro: le coincidenze non esistono e nella vita quotidiana tanti piccoli episodi ci possono tenere in contatto con i nostri cari nell’aldilà. A raccontarcelo è proprio Martina Carbutti che abbiamo intervistato.
Martina, parlaci della tua famiglia?
«I miei genitori mi hanno sempre aiutata, nella vita e nel lavoro. Soprattutto quando per un periodo ho gestito un "nido famiglia" in casa. Con loro, a parte la fase adolescenziale in cui un po’ mi ci scontravo come spesso capita a quell’età, ho sempre intrattenuto un ottimo rapporto e ho avuto anche la fortuna di rendermene conto mentre vivevo quei momenti. Uno fra i più belli era il Natale che festeggiavamo in casa. Ero io a organizzare i giochi a premi per tutti. Quando gestivo l’asilo nido lasciavo esposti anche tutti gli addobbi natalizi che avevo realizzato per i bambini e ai miei genitori sembrava di tornare indietro nel tempo a quando erano piccoli.».
Cosa è successo a papà?
«Un giorno del 2011 Valterino, così lo chiamavamo noi e gli amici, svenne sul lavoro. La TAC sentenziò: aneurisma cerebrale. Un luminare dell’ospedale San Camillo gli disse che doveva essere assolutamente operato, ma non gli nascose il fatto che c’erano solo il 3% di possibilità di uscire del tutto indenne dall’intervento, perché si sarebbe potuta ledere la capacità motoria o compromettere la sfera del linguaggio e del pensiero. Papà lì per lì scoppiò in un gran pianto, ma poi decise di continuare la vita di sempre, limitandosi ad assumere la pasticca giornaliera, continuando a fumare, a non evitare gli sforzi, ad andare al mare, che amava tanto, incurante dei consigli di non esporsi al sole nelle ore più calde. Per dieci anni andò tutto bene, senza alcuna avvisaglia».
Poi?
«Il 15 marzo 2021 era il primo giorno di pensione di mamma. Papà ne era felicissimo anche perché nell’aria già si respirava la primavera e non vedeva l’ora di andare a fare delle gite in scooter con lei. Quel giorno papà si alzò e si mise a fare colazione come sempre, poi gli venne un colpo di tosse e cadde a terra svenuto. Era entrato in coma e nel giro di quattro ore ci lasciò».
Che persona era?
«Era una persona a volte cocciuta e un po’ polemica, ma un gran compagnone, buono e generoso con tutti. Con me era tanto protettivo. Della serie: “fammi uno squillo appena arrivi a casa”; “piove, ti passo a prendere con l’ombrello”; “stai attenta quando attraversi la strada” e cose di questo tipo che sinceramente, soprattutto da adolescente quando con lui mi scontravo per le prime uscite, mi davano pure un po’ fastidio. Io mi dicevo: “Sono grande, me la so cavare da sola, non ho bisogno di tutte queste attenzioni”. Solo da quando papà non c’è più mi sono resa conto di quanto invece fossero importanti queste piccole premure e ora mi mancano tremendamente ogni giorno di più. Ma la vita è così: ti rendi veramente conto di tutto ciò che hai solo quando lo perdi».
Perché hai deciso di scrivere un libro in ricordo di papà?
«Quando è morto papà vedevo tutto nero: credevo che non esistesse più niente dopo la morte, che non l’avrei più sentito, che saremo stati lontani per sempre, perché una persona una volta che è morta non c’è più. Punto e basta. Per stare più unite fra noi, io, mamma e Marzia avevamo aperto un nostro gruppo Whatsapp. Lì ogni sera mia sorella postava delle frasi estrapolate da libri riguardanti la vita dopo la morte. Ogni volta riflettevo su quelle frasi e cercavo di dare un senso a tutto, ma non lo trovavo. Dopo alcune settimane, però, iniziai a sognare papà e trascrissi quei sogni uno dopo l’altro, fino a superare il centinaio».
Che tipo di sogni sono?
«Sogni talmente reali e nitidi che me li ricordo uno ad uno. Sogni in cui papà continua a dispensarmi consigli anche per altri membri della famiglia, come ad esempio un messaggio da portare a un mio cugino che ora abita proprio in Trentino. Oppure si tratta di sogni di ammonimento, se non addirittura di premonizioni».
Ad esempio?
«Il più clamoroso è quello che feci all’inizio dell’estate 2023. Una notte sognai papà che mi diceva di stare attenta nell’attraversare la strada e mentre sentivo le sue parole mi si materializzò l’immagine di me che venivo investita vicino al mio ufficio, riportando gravi traumi alla gamba sinistra. Ebbene, qualche settimana dopo quel sogno divenne realtà. Infatti, mentre stavo uscendo dall'ufficio, venni investita da uno scooter che mi sbalzò sulla corsia opposta. Rimasi sull’asfalto, tutta insanguinata, in uno stato d'incoscienza. Mentre ero a terra esanime, nella mia mente vedevo me stessa, con gli stessi vestiti che indossavo quel giorno, che correvo leggera in una specie di corridoio lungo e stretto, sui cui lati si aprivano delle porte dalle quali fuoriuscivano fasci di luce accecanti. Io volevo uscire da quel luogo, ma non ci riuscivo e ripetevo solo “papà, ti prego, voglio vivere ancora"».
Dopodiché cosa accadde?
«Improvvisamente aprii gli occhi e vidi il cielo azzurro. Mi sentii afferrare da una persona che mi sollevò stendendomi sul marciapiede, giusto prima che scattasse il verde e le macchine transitassero in quella corsia. Grondavo sangue e temevo di essermi rotta la testa. In realtà avevo ferite alle braccia e soprattutto alle gambe. Quella sinistra, poi, mi faceva un male tremendo. Esattamente come nel mio sogno. “Tranquilla, non ti sei fatta niente, hai solo qualche escoriazione” mi disse l’uomo che mi aveva spostata. Anche altre persone presenti lo videro, ma poi improvvisamente lui sparì dalla scena e non si è mai capito chi fosse veramente. Forse era un angelo. Mi piace pensare che sia stato papà a proteggermi e tutto è andato bene. Per fortuna avevo pubblicato quel sogno prima dell’incidente, altrimenti ora qualcuno potrebbe accusarmi di essere una mitomane o una pazza».
Un sogno premonitore?
«Mi sembra evidente e pensare che prima della scomparsa di papà io non sognavo mai. Anche Marzia e mamma lo sognano, ma molto meno di me. È capitato però che l’abbiamo sognato tutte e tre insieme nella stessa notte e mia sorella ha sognato addirittura la mia stessa scena».
Sei credente?
«Con la fede ho un rapporto un po’ complicato. Non sono mai stata una che andava in chiesa, però da sempre sono molto devota a Padre Pio. Una volta quando moriva qualcuno dicevo a tutti “non ti preoccupare, non piangere, perché loro sono sereni se ti vedono sereno, loro ti staranno sempre vicino”. Ma al funerale di papà mi sono resa conto che erano tutte frasi di circostanza, in cui non credevo. Da quando ho cominciato a sognare papà, invece, lo dico con assoluta convinzione, perché mi si è aperto un mondo del tutto nuovo rispetto a prima. Ora dico a tutti: credeteci. Esiste la vita dopo la morte, loro non ci lasciano mai e, se abbiamo la sensibilità giusta per coglierli, ci lanciano sempre dei piccoli segnali».
La scrittura del libro per te è stata terapeutica?
«Assolutamente sì. Innanzi tutto già quando ho incominciato a scrivere i miei primi pensieri su Facebook ho avuto un sacco di feedback positivi. Qualcuno mi ha contattata per raccontarmi degli aneddoti riguardanti papà che non conoscevo, altri mi hanno inviato sue foto di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza. Poi ho conosciuto delle persone meravigliose con le quali sono entrata subito in sintonia, trovando nuove amicizie. Ma al di là di tutto, ciò che più mi dà forza è pensare che questo libro possa contribuire ad aiutare qualcun altro a superare un lutto e a riprendere il proprio cammino sentendo di avere il proprio caro estinto a fianco».
Oltretutto il ricavato del libro andrà in beneficenza…
«Sì, io e Marzia devolveremo l’intero ricavato alla “Fondazione Santa Lucia IRCCS”, un ospedale di neuroriabilitazione e istituto di ricerca in neuroscienze, dove mamma rimase ricoverata per sei mesi. Nello stesso periodo in cui diagnosticarono l’aneurisma a papà, infatti, mamma venne colta dalla Sindrome di Guillain-Barré che può provocare paralisi permanenti o addirittura la morte. Grazie alle amorevoli cure della struttura Santa Lucia, mamma, che era paralizzata dal collo in giù, è tornata ad essere nuovamente autonoma».
Un ricordo di papà?
«Il 6 gennaio 1985 mi alzai e corsi in cucina desiderosa di scoprire che cosa mi avesse portato la Befana. Trovai papà davanti alla finestra, rapito da quello che stava succedendo fuori. Quella mattina, infatti, Roma si era svegliata sotto una fitta coltre di neve, in un’atmosfera magica. Dal cielo continuavano a cadere soffici fiocchi e gli occhi di papà brillavano di gioia come quelli di un bambino che riceve un regalo del tutto inaspettato. Era felice per me e per Marzia che non avevamo mai visto la neve prima di allora».
Martina, cosa ti auguri per questo 2024?
«Tanta salute ma, soprattutto, di poter continuare a sognare papà perché ne ho bisogno. È come se lo incontrassi per davvero. Che mi prendano pure per pazza, ma questa è la più grande forza che oggi ho e voglio continuare a vivere così, seguendo quel filo... invisibile a molti, ma di certo non a me. Grazie papà!»
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