di NICOLA PISETTA
Intervista alla stella del calcio brasiliano e italiano, José Altafini, campione del mondo col Brasile a fianco di Pelé e campione d’Europa col Milan. L’ex calciatore, da parte materna, è nipote dell’Alta Valsugana: discende da Caldonazzo...
José, una vita sui campi da calcio e tra i microfoni in TV: di cosa ti occupi oggi?
«Non mi stanco mai, né del lavoro, né del calcio! Oggi sono testimonial per una nota azienda che si occupa di erba sintetica per i campi sportivi».
Quali sono le tue origini?
«Da parte materna sono originario di Caldonazzo: il suo cognome era Marchesoni e i miei antenati tanto tempo fa lasciarono il paese per cercare fortuna in Brasile, non ricordo però l’anno. Da parte, invece, del nonno paterno discendo dal Polesine, da Giacciano con Baruchella, in provincia di Rovigo e non lontano dal Po: purtroppo, però, i nonni materni non li ho mai conosciuti, mentre quelli di origine rodigina sì, ma ero molto piccolo e i ricordi non sono tanti. Ad ogni modo, oggi posso onorare le mie radici grazie alla Cittadinanza Onoraria che ho acquisito in entrambi i comuni: Caldonazzo nel 1998 e Giacciano con Baruchella nel 2021».
Hai ereditato, sin dall’infanzia, i dialetti provenienti dagli antenati?
«Del dialetto trentino nulla. Ricordo, invece, la nonna paterna parlare il veneto del Polesine. Questo fattore provocava una barriera tra lei e me, nipote della nuova generazione, e la lingua limitava molto la comunicazione: lei parlava il veneto e io non la capivo, io parlavo il portoghese e lei non mi capiva. Quando arrivai in Italia da calciatore, per me il dialetto non fu un motivo di vantaggio dinanzi all’apprendimento dell’italiano e con la lingua nazionale dovetti cominciare completamente da zero».
Il dialetto veneto, ad ogni modo, era di casa nel Milan degli anni ‘60…
«Assolutamente sì! In quel magnifico gruppo molti dei giocatori della rosa erano accomunati dalla geografia natale: quel Milan era in parte una squadra proveniente dal nord-est, Friuli Venezia Giulia e Veneto. Il nostro mister, Nereo Rocco, creò il suo personaggio grazie alla parlata triestina, molto vicina al veneto, e non a caso gli valse l’appellativo de “El Paron”. Sentivo, poi, la parlata del vice allenatore Marino Bergamasco e quella di Cesare Maldini, anche loro entrambi di Trieste o quella di un altro compagno, il goriziano Mario David. Tra i veneti della squadra, il dialetto era parlato anche da Gino Pivatelli, nato in provincia di Verona. Sfortunatamente non ho potuto acquisire, in Brasile, il bilinguismo in fase di crescita e il dialetto delle mie radici andò scemando, ma da grande non fu mai troppo tardi: una volta che avevo preso confidenza e padronanza con la lingua italiana, capivo molto bene quando i compagni, tra loro, parlavano nella maniera regionale».
L’importante, soprattutto, fu capirsi in campo nella finale di Coppa dei Campioni del 22 maggio 1963: il Benfica era, sulla carta, favorito e spesso si parla di un clima, in squadra, teso. Fu davvero così il prepartita?
«Si doveva preparare il match alla perfezione, l’avversario non era uno qualsiasi. A me quel clima non apparteneva, nonostante la presenza di Eusebio e una squadra, quella portoghese, campione d’Europa in carica che stava, da due anni, dominando in lungo e in largo l’Europa e fino a quel momento l’unica, dopo il Real Madrid, a vincere la Coppa dei Campioni da quando è nato il torneo nel 1956. Sentivo la massima tranquillità e questo fattore mi aiutò a scendere in campo senza l’ansia da prestazione addosso. Del resto, non ero nuovo dinanzi alle prestigiose sfide internazionali. Sapevamo che quella finale, a Wembley, l’avevamo meritata e non eravamo lì per caso, il nostro cammino fu straordinario. Trovammo, così, l’intesa perfetta e quella offensiva fu soprattutto tra me e Rivera. Fu suo l’assist che mi permise di segnare il pareggio nel secondo tempo e sempre da una sua palla, questa volta rubata d’improvviso a centrocampo, mi lanciò verso la porta lusitana con un’autostrada davanti. Avevo il pallone incollato ai piedi, corsi all’impazzata verso la porta, i difensori furono costretti a inseguirmi e io mi ritrovai solo contro il portiere Costa Pereira. Che fare? Tirai di destro ma l’estremo difensore portoghese respinse il pallone: ebbe un buon riflesso, ma non gli bastò. Subito dopo la ribattuta, segnai: fu una respinta talmente rapida che la telecamera non ebbe il tempo di inquadrarmi mentre tiravo. Alla fine, poi, il Benfica non riuscì a reagire: fu l’apoteosi».
Che ricordi hai, invece, del Maracanazo del 1950, la finale del mondiale persa dal Brasile contro l’Uruguay?
«L’ambiente, in tutto il Brasile, era cupo: fu il dramma calcistico nazionale ma io, ragazzino dell’epoca, non fui segnato. Il problema, casomai, si presentava quando mancava un pallone per giocare nei prati coi coetanei. Per il resto, invece, quella finale mi fece sognare in grande e vivere queste sconfitte, a quell’età, è il meglio! Spensieratezza, nessun trauma, sogni… Nella mia testa era solo un continuo fantasticare: dovevo riscattare, in futuro, quella sconfitta. La delusione fu altrettanta anche in Svizzera, nel 1954, quando a Berna la Nazionale verdeoro venne sconfitta ai quarti di finale dalla grande Ungheria degli anni ‘50. Ma il tempo poi...»
Il soprannome è un elemento identitario in Brasile: ne avevi uno particolare...
«Sì, il mio soprannome era Mazzola: quello, però, non nacque durante l’infanzia a Piracicaba. Come spesso accade nelle famiglie brasiliane, anche mia mamma mi attribuì il soprannome: ero, affettuosamente, chiamato “Zezo”. Quando poi lasciai Piracicaba per San Paolo, ebbi la possibilità di accedere al provino, dall’esito finale positivo, per il Palmeiras. Nella sede sociale della società sportiva era appesa una foto del Grande Torino, il mito italiano del calcio brasiliano dell’epoca. Dopo quattro partite dall’ingaggio, un allenatore vide una certa somiglianza fisionomica tra me e Valentino Mazzola e da lì, quel soprannome mi accompagnò nel corso dell’avventura calcistica a San Paolo. In seguito, mentre la famiglia Mazzola in Italia stava assistendo all’ascesa di Sandro e Ferruccio, i figli di Valentino, sia la società nell’elenco della rosa che i mass media brasiliani cominciarono a chiamarmi direttamente per cognome, onde evitare confusione o quant’altro. Abituati tutti ormai a quello, a differenza degli altri miei compagni carioca non volevo alcun soprannome: anche se nel calcio brasiliano il possesso del cognome per un calciatore è atipico, da oriundo giunto in Italia scelsi di mantenerlo definitivamente».
Mondiale vittorioso di Svezia 1958: tu e Pelé eravate giovanissimi. La responsabilità pesava?
«Io avevo 19 anni, col numero 9 sulle spalle e Pelé 17 anni, col numero 10: eravamo giovanissimi e pieni di aspettative, ma non percepimmo alcun disagio. Stavamo vivendo un sogno, eravamo in gran forma e sapevamo di dare il massimo per metterci definitivamente in mostra, consolidando così le nostre qualità nel calcio mondiale, e quel che più aiutò, in quel periodo, fu la stessa collettività brasiliana: sia la gente che i giornali seppero cancellare d’immediato ogni timore che poteva passare all’intera rosa per la testa. I tifosi verdeoro, infatti, hanno il pregio di saper spingere la squadra e caricare ogni giocatore convocato: prima di scendere in campo, inoltre, non osano criticare o giudicare, anzi. Hanno fiducia nelle capacità. Certo, le aspettative erano alte dopo le delusioni del 1950 e 1954 ma dai quotidiani, le parole pubblicate erano per noi confortanti e non influirono sulla mente: fu soprattutto la scelta della pubblicazione giornalistica, alla fine, a permetterci di giocare in tutta scioltezza. Tutto quello che veniva, era tutto guadagnato».
Quali rapporti correvano tra te e il compianto Pelé?
«Con Pelé siamo sempre stati amici, sin dal primo giorno in cui ci eravamo conosciuti e l’ho sempre amato in campo da giocatore e stimato come persona nell’ambito extra calcistico. Dispiace che si sia creata, attorno al nostro rapporto professionale, la leggenda dell’inimicizia nella squadra del 1958: non è mai esistita alcuna rivalità, né alcun contrasto personale. Su questo, faccio riferimento al film biografico “Pelé” del 2016: l’ho trovato, semplicemente, vergognoso. Nelle scene ambientate in Svezia si vedono me (interpretato dall’attore Diego Boneta) e Pelé (Kevin de Paula) essere messi l’uno contro l’altro, creando su di me un personaggio che agli occhi del telespettatore passa come il vero e proprio antagonista nella trama. Nulla di tutto ciò è vero, è pura invenzione romanzata, e questo m’è dispiaciuto tanto: avevamo rapporti di amicizia e condividevamo, in quel mondiale, la gioia e il sogno di essere là»
NON SOLO ALTAFINI
Non solo Altafini: dal Trentino orientale discendono anche i sudamericani Antonio Ubaldo Rattín e Neto. Il primo, originario di Canal San Bovo da parte dei genitori, è una leggenda del calcio argentino in qualità di ex capitano del Boca Juniors e dell’Argentina negli anni ‘60. Il secondo è l’ex portiere di Fiorentina, Juventus e Barcellona, ora in forza agli inglesi del Bournemouth, e discende dalla Bassa Valsugana.
- Rattín passò alla storia per un’espulsione ai quarti di finale del mondiale di Inghilterra ‘66: non accettando la sanzione, non volle abbandonare il campo e la partita fu sospesa per 11 minuti. Quel fatto spinse l’ex arbitro inglese Ken Aston ad inventare il cartellino giallo e rosso, ispirandosi in macchina al semaforo. Aston fu lo stesso direttore che arbitrò, con Altafini in campo, Cile-Italia 2 a 0 del mondiale 1962, partita passata alla storia per “La Battaglia di Santiago”: è il match considerato come il più violento della storia dei mondiali e gran parte dei media internazionali contestò l’arbitraggio contro l’Italia, che chiuse il match in 9 contro 11.
- Dal Milan di Nereo Rocco di inizio anni ‘60 alcuni nomi della rosa passarono per lo stadio Briamasco: Marino Bergamasco, vice allenatore di Rocco, allenò il Trento alla fine degli anni ‘50. Mario David e Paolo Ferrario, invece, sedettero sulla panchina degli Aquilotti tra gli anni ‘70 e ‘90.