di Nicola Pisetta
Il 9 ottobre 1963 una frana fa straripare un bacino idroelettrico nella Valle del Vajont, tra le province di Belluno e Pordenone. L'acqua si riversa a valle distruggendo tutto ciò che incontra, fra cui il paese di Longarone. Alla fine si contano 1917 morti, fra i quali i genitori, la nonna e una sorella di Micaela Coletti, all'epoca 12enne, che ci racconta la storia di quella sera e della sua vita ancora oggi in fase di ricostruzione...
La sera del 9 ottobre 1963, alle ore 22.39, dagli scoscesi pendii del monte Toc si staccarono 260 milioni di metri cubi di roccia che si riversarono nelle acque del lago artificiale sottostante: provocarono un’onda alta circa 200 metri e 25 milioni di metri cubi di acqua colpirono il comune friulano di Erto e Casso e quelli veneti a fondovalle di Castellavazzo e Longarone. 1917 vittime, oltre 2000 dispersi. La diga era, allora, la più alta del mondo e fungeva da bacino idroelettrico.
L'INNOCENZA DEI 12 ANNI
«Avevo 12 anni – racconta Micaela – e negli ultimi tempi sentivo gli anziani dire che quella diga sarebbe stata la nostra morte». Micaela, comunque, come i suoi coetanei viveva nell’innocenza fanciullesca: «eravamo in cinque fratelli ma la vita, specie a scuola, procedeva regolarmente. Solo tre giorni prima del disastro, sentii i miei genitori dire che io e i miei fratelli avremmo dovuto andarcene a Belluno dalla zia: che cosa avremmo mai fatto di male, mi domandai? Avevo solo interpretato male il discorso, volevano salvarci».
NON PENSAVA AL PEGGIO
Micaela, come altri suoi coetanei longaronesi, non pensava al peggio. Tanti tecnici della diga, per esempio, erano di Longarone e pur sapendo della minaccia, non fecero evacuare le proprie famiglie: «Anche mio papà lavorava presso la diga, la mamma invece in un albergo di Longarone. Pensavamo, però, che il pericolo lungo il Piave non fosse così alto al contrario, invece, di quanto si percepì sin da subito sulla montagna a Erto e Casso, la cui popolazione abitava appena sopra il lago e vedeva la frattura allargarsi giorno dopo giorno».
LA PICCOLA MILANO
A Longarone, in quegli anni, data anche la privilegiata posizione del paese situato sulla strada per le Dolomiti ampezzane, «la vita era estremamente fervida fino all’ultimo giorno: le sagre, le feste di paese, le lezioni a scuola proseguivano nella normalità» dice Micaela.
Il paese, chiamato allora “la piccola Milano”, richiamava anche tanti artisti e pittori da fuori: «Era davvero una comunità attiva, ma l’onda ha cancellato tutto: la nuova Longarone non ha più recuperato alcuna traccia culturale di quegli inizi di anni ‘60».
UN GIORNO NORMALE
Il 9 ottobre era un normale giorno feriale: molta gente si ritrovò la sera, come da prassi, al caffè Centrale di Longarone per assistere in TV al mercoledì di Coppa.
Micaela era in casa e andò a dormire alle 9 e mezza: «Ricordo papà che tra le 10 e le 10 e mezza arrivò a casa in macchina per cena, poi sarebbe uscito a prendere mamma al lavoro: sentii un vociare di persone che lo vennero a chiamare e andò via d’improvviso, cosa che di solito non faceva».
POCHI MINUTI DOPO, IL BOATO
Passarono pochi minuti e Micaela udì il boato: «un fragoroso tuono causò il black-out in casa. Mia nonna entrò in camera e chiuse le imposte per quello che sembrò essere un comune temporale: non so, se quel rumore assordante, era dato dall’acqua o dal vento. Le sensazioni, poi, erano talmente fuori da ogni normalità, che diventa difficile specificare i momenti. Ricordo come un buco che voleva risucchiarmi sul fondo e il volo che mi spostò a enorme velocità. Accadde tutto in 4 minuti».
L'HIROSHIMA DEL CADORE
Si calcola che la massa d’acqua abbia causato uno spostamento d’aria pari a due volte superiore a quello della bomba atomica gettata su Hiroshima. Ciò che altrettanto colpisce, è quanto accadde dopo: «Abitavo nel centro di Longarone, vicino alla Chiesa. Mi trovarono, ancora viva, a 500 metri di distanza da casa mia. Ero quasi completamente sepolta ma dal fango sbucavano il piede e la mano, li riuscivo ancora a muovere».
In mezzo, ormai, al nulla e senza più punti di riferimento, fu un vigile del fuoco, Aldo de Col, che passando di lì e grazie al riflesso luminoso della luna, si accorse di Micaela: «Abbiamo trovato un’altra vecchia», sentì dire Micaela dai soccorritori. «Non parlavo, ero cosparsa di fango e piena di lividi, ma riuscivo a sentire».
IL GIOVANE GELATIERE
Fu poi un giovane gelatiere di San Vendemiano (TV) a portare Micaela in ospedale: Cesare Antiga stava tornando a casa dalla Germania, dove lavorava, quando trovò la strada di Longarone chiusa. Ignaro dell’accaduto e vedendo le persone sfollate per strada, si accorse di Micaela: aveva un legno conficcato nella schiena.
«Mi portò all’ospedale di Pieve di Cadore, dove rimasi ricoverata per due mesi e quella notte persi mia mamma, mio papà, mia nonna e una sorella. Di otto che eravamo in famiglia, siamo rimasti in tre. Per sei anni ho sempre pensato ad un incubo da cui mi sarei ben presto risvegliata».
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