di FRANCO ZADRA
Se le stime statistiche più accreditate indicano che gioca d’azzardo metà della popolazione adulta in Italia e le quote di gioco problematico hanno visto un aumento negli ultimi anni della popolazione tra i 15 e i 74 anni e in particolare tra i giovani, sono meno disponibili dati statistici che dettaglino a tal punto da permettere di evidenziare una significativa differenza di genere tra i giocatori patologici.
Non sarebbe corretto, e non è nemmeno il nostro intento, quindi definire una differenza o una maggiore o minore incidenza nelle conseguenze dell’adozione di comportamenti a rischio tra maschi e femmine; l’abitudine a un comportamento come quello di giocare per soldi, diventa centrale nella vita e nei pensieri di un soggetto, al di là della sua appartenenza a un genere o l’altro, con le stesse conseguenze nefaste di un condizionamento “pavloviano”, per fortuna modificabile (o curabile) allo stesso modo coltivando contro-abitudini positive, perché, a prescindere dal diverso numero di neuroni nella corteccia cerebrale, in media 19,3 miliardi nelle donne e 22,8 miliardi negli uomini, il cervello razionale di entrambi funziona allo stesso modo e la ricerca di senso e appagamento, o meglio, della felicità, percorre gli stessi sentieri e si riposa in un identico Destino.
Ci sarebbe peraltro da chiedersi che cosa se ne facciano gli uomini di quei tre miliardi e mezzo di neuroni in più, visto che molto più delle donne cascano nella ludopatia per una differenza, questa sì significativa, di oltre 13 punti percentuali, e il gioco d’azzardo interessa attualmente quasi un uomo su due, ma “solo” una donna su tre.
L’educazione ha la sua importanza, e forse il “vantaggio” femminile va ricercato nel modo più “protettivo” che la famiglia italiana in genere riserva tradizionalmente alle bambine, propensione che si mantiene nonostante lo scadimento complessivo dell’influenza educativa nella famiglia e nella società tutta.
A vedere i disastri che una dipendenza da gioco d’azzardo insinua nella vita dei singoli e delle loro famiglie, e quindi nell’intera comunità, bisogna proprio dare ragione alla filosofa femminista Luisa Muraro quando parla della «indicibile fortuna» di nascere femmina, e anche una certa immunità di genere dal gioco d’azzardo potrebbe apparire tra le eccellenze femminili, a superare quelle visioni mortificate e mortificanti, da veline e donnine, che affollano ancora il dibattito pubblico.
Lo avesse saputo Fëdor Dostoevskij quando scrisse “Il giocatore”, di questa eccellenza femminile, forse, nel sondare profondamente la mente umana per quel suo desiderio di vincere, il brivido della scommessa, e la disperazione della perdita, avrebbe sottolineato di più l’apporto “salvifico” del genio femminile rappresentato da Anna Grigor'evna Snitkina, sua stenografa, poi moglie, e anche il suo più grande amore, che gli restava accanto nelle disavventure di gioco che lo hanno portato più volte sull’orlo del baratro finanziario.
Dal punto di vista maschile, infatti, nella coppia etero la donna rappresenta forse il primo “pronto soccorso” al quale rivolgersi all’apparire dei sintomi più comuni dell’insorgenza di una dipendenza da gioco, soprattutto quando si propenda a minimizzare e sottovalutare il pericolo.
Come capitava a Dostoevskij, anche oggi “lui” mente sistematicamente a “lei” quando si trovi costretto a specificare la quantità di denaro e di tempo buttati e persi nei giochi d’azzardo, mentre l’essere sinceri fin da subito potrebbe essere determinante per una significativa prevenzione all’insorgere della patologia, che in poco e “stupidamente” diviene spesso un gorgo ingovernabile e mai sazio.
Questo, ovviamente, vale anche per le donne ma, come dicevamo sopra, scarseggiano gli studi di genere sul tema e ne possiamo scrivere solo “a sensazione”, facendo attenzione a non cadere nel “sessismo”, valorizzando quella che ci appare come una “specialità” femminile, l’accorgersi cioè, prima degli uomini, che più si gioca e più si perde.
Σχόλια