Matteo Chincarini ha rassegnato le dimissioni da direttore artistico del Palio dela Brenta: impegni di lavoro e la necessità di vedere il Palio con altri occhi sono le principali motivazioni della decisione che non vuole essere un addio, bensì un arrivederci, perché...
di Johnny Gadler

Matteo, per molti le tue dimissioni da direttore artistico del Palio hanno rappresentato un fulmine a ciel sereno. Qual è stato il casus belli?
«Non vi è alcun casus belli. Tengo subito a precisare, a scanso di equivoci o di illazioni, che la decisione di lasciare la direzione artistica del Palio è stata discussa e confrontata con il direttivo, con il quale vi è perfetta sintonia, senza che da parte mia vi sia alcuna critica o polemica. Aggiungo che è stata una decisione molto sofferta, ma ben ponderata perché ho cominciato a pensare di fare un passo indietro già nella primavera scorsa. Adesso che il Palio 2019 è andato in archivio, e occorre rimettersi a lavorare alacremente per l’organizzazione del prossimo anno, ho ritenuto doveroso ufficializzare le mie dimissioni. Sono contento di lasciare in un anno dove è andato tutto benissimo, perché è molto facile andarsene quando le cose vanno male».
Se non hai lasciato per dissapori, quali sono le ragioni che ti hanno portato a lasciare una nave che andava a gonfie vele...
«I motivi sono sostanzialmente due. Il primo è legato alla mia professione artistica, la quale da quest'anno mi vedrà impegnato in un percorso formativo giornaliero che mi impedirà di dedicare altro tempo alle mie passioni come il Palio, essendo esso un lavoro che per quando riguarda la mia figura inizia proprio in questi mesi per pensare ed ideare l'edizione successiva. La seconda motivazione, che è preponderante, appare di natura etico/stilistica, in quanto il lavoro di un direttore artistico è paragonabile a quello di un regista che deve seguire da “fuori” quello che accade durante uno spettacolo. Dopo sei anni di conduzione della manifestazione ho bisogno di vedere il Palio con un occhio esterno e critico per potermi poi immedesimare e capire cosa ancora vi sia da migliorare e sistemare per far sì che il Palio possa crescere ulteriormente. Insomma, non volevo finire per essere il Pippo Baudo di turno che monopolizza l’intera scena».
Che Palio lasci?
«Ho preso in mano una manifestazione che era una bella festa di paese a tutti gli effetti e, assieme ad altre persone, l’ho fatta crescere e diventare un vero e proprio evento di richiamo, non solo locale ma anche turistico a livello extraterritoriale. Di questo mi prendo i miei giusti meriti che, lo ripeto, devo però condividere con tutti coloro i quali hanno collaborato e mi hanno appoggiato in questi sei anni».
Qual è la cosa che ti rende più orgoglioso del tuo operato?
«Ce ne sono varie. A livello pratico magari il fatto di aver introdotto momenti nuovi nell’evento, come lo spettacolo d’apertura che non era mai stato fatto, anche perché comporta investimenti significativi, che però sono stati ampiamente ripagati dal gradimento del pubblico. Altro risultato a cui tengo molto è l’aver ripreso a scrivere i proclami di sfida in dialetto, con le tematiche attuali. Poi una grande soddisfazione è stata la realizzazione del documentario “La Brenta gualiva”, un lavoro sulla storia del Palio che ha avvicinato varie generazioni sul tema della manifestazione. Infine, l’aver istituito il premio Palio Young, un riconoscimento a un giovane in prospettiva futura. E forse la mia maggiore soddisfazione è stata proprio questa: far crescere una generazione di ragazzi giovanissimi con uno spirito che nemmeno io avevo da piccolo nei riguardo di questa manifestazione. Sapere che ci sono persone che al Palio ci tengono proprio mi fa stare molto tranquillo. Non so se avrei fatto un passo indietro se avessi avuto il dubbio che non c’era nessuno in grado di portare avanti il mio lascito».

Diciamocelo però. La tua è un’eredità pesante. Non temi che chi verrà dopo di te, un po’ avvertirà questo peso?
«Una manifestazione così grande e strutturata non può bloccarsi perché manco io. Ci sono circa 300 persone coinvolte e fra loro vi sono figure molto competenti. Devono solo trovare la forza di essere consapevoli della propria professionalità e questa potrebbe essere l’occasione giusta per farlo».
Se ti chiedessero una mano?
«Loro sono persone con cui sono cresciuto e quindi anche amici prima di tutto. Già lo sanno: se è per qualche consiglio il mio telefono è sempre aperto, ma poi ogni decisione spetta esclusivamente a loro. Quando metto il mio nome e la mia faccia in un evento è perché lo posso seguire al massimo. Ad esempio, il proclama di sfida se non ci sono io non lo scrivo, punto. Per me le cose si fanno bene, oppure non si fanno per niente».
E tu che consiglio daresti?
«Di essere loro stessi e di non scimiottare quello che facevo io, dando magari anche un’altra impronta allo spettacolo d’apertura. Ci sono un sacco di associazioni locali di valore in zona, un’idea potrebbe essere quella di cercare di coinvolgerle anziché andare a cercare fuori dei nomi altisonanti come facevo io. Come organizzazione siamo arrivati a un punto dove l’evento è molto impegnativo. Sta al direttivo del Palio decidere cosa fare. Si prenderanno il tempo di cui hanno bisogno e se vorranno rallentare la presa per fare una cosa un po’ più piccola, sarò il primo a comprenderli. L’importante è che la facciano bene, perché ci tengo proprio.».
Insomma, non riusciamo a strapparti una critica al Palio. Qualcosa da migliore ci sarà...
«Se proprio vogliamo trovare una nota dolente, potrei dire che serve un po’ più d’unione, perché questa rivalità tra le due sponde che rappresenta il sale del Palio – purtroppo o per fortuna – c’è anche nel corso dell’anno per l’organizzazione e non lo trovo molto corretto. Le sfide lasciamole alla piazza e alle frecce, per organizzare serve essere tutti uniti. Il Palio deve avere un’unica anima».
Perché, ne esistono due?
«Talvolta è successo. Da un lato l’aspetto artistico dello spettacolo e dall’altra quello sportivo con le gare. Io ho sempre gestito la parte dello spettacolo, ma mi è mancato un po’ un alter ego che coordinasse la parte sportiva, perché va benissimo la sfida, però essa deve svolgersi anche in funzione della spettacolarità dell’evento che, lo ricordo, si fa per il pubblico. Altrimenti ci si ritrova fra di noi e facciamo tutte le sfide che vogliamo, ma si tratta di un'altra cosa. Questo è sempre stato il punto dolente, ma se riescono a fare squadra l’evento sarà sicuramente di gran qualità».
Per il Palio 2020 preferiresti arrivare a Borgo tra il pubblico senza sapere cosa ti riserva il programma o vorresti essere informato dei vari progressi nell’organizzazione?
«Confesso che l’idea di arrivare a Borgo il giorno del Palio e godermi lo spettacolo senza sapere nulla mi affascina molto, ma tanto so già che non sarà possibile, perché sono curioso da matti e se non saranno loro ad aggiornarmi, sarò io il primo a chiedere informazioni. Spero solo che il prossimo Palio mi sorprenda e che facciano un successo pazzesco».
In questi anni c’è qualcosa che non sei riuscito a fare e che ti ha lasciato un rammarico?
«Intanto tutte le attestazioni di affetto che ho ricevuto in queste settimane mi hanno fatto capire che ho lasciato un bel segno. Fortunatamente ho fatto sempre tutto ciò che mi ero riproposto e non ho grandi rammarichi. Se proprio vogliamo trovarne uno, posso dire che ho chiesto per anni le gradinate, convinto del fatto che se il pubblico è seduto ti rimane molto più a lungo in piazza. Ma è un aspetto del tutto secondario che non posso certo annoverare fra gli obiettivi mancati».
Hai detto che il tuo non vuole essere un addio, ma soltanto un arrivederci. Quindi rientrerai nell’organizzazione?
«Sì, il mio non è un addio definitivo. Ho ancora tante idee da mettere in atto che saranno la motivazione per un mio eventuale rientro più avanti. Comunque sia, prima di crepare il dottor Farina lo voglio proprio fare. Non ho ancora i capelli bianchi, ma è un mio obiettivo futuro. Promesso».