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Associazioni in vetrina. Shemà, la baita del Mett, un percorso di ricerca d'identità e di servizio


SPAZIO INFORMATIVO REALIZZATO GRAZIE AL CONTRIBUTO DELLA



«Far emergere i nostri ragazzi, consolidare la loro stima, apprezzare la voglia di ricerca e di mettersi al servizio che hanno sono le cose belle della nostra associazione...»


Pesidente Mattivi, cosa significa il vostro nome? «Shemà significa “ascolta” in ebraico e fa parte della preghiera che l’ebreo recita ogni giorno. La nostra origine si colloca nell’ambito parrocchiale, quindi il cammino svolto con i ragazzi dell’associazione è sostanzialmente un percorso di ricerca d’identità e di servizio. Nel nostro percorso formativo abbiamo utilizzato questa preghiera come una sorta d’impronta antropologica: un ascolto che è ascoltarsi, ascoltare gli altri, l’ambiente circostante e la comunità in cui si è inseriti per poi trovare i propri valori e ideali, mettendosi in cammino, al servizio degli altri».


Il presidente Stefano Mattivi

Quando è nata l’associazione? «All’inizio di quest’anno, ma in realtà è frutto di un cammino molto più ampio e articolato, in cui si intrecciano tante esperienze diverse e complesse. C'è anche una sfida, quella della mia famiglia, segnata dal dolore e dalla fatica della disabilità: una fatica che, però, col tempo è diventata generativa».

Ce ne vuole parlare?

«Io e mia moglie Lara abbiamo quattro figli, due dei quali – Mattia e Giacomo – purtroppo affetti dalla distrofia muscolare, una terribile malattia degenerativa. Mattia è morto nel gennaio di quest'anno, a 20 anni, lasciando un grande vuoto nel gruppo perché era uno dei ragazzi più attivi. Casa nostra, per anni, è stata un po’ l’oratorio dei ragazzi di Piné. Dopo la scomparsa di Mattia abbiamo avvertito l’esigenza di assumere una fisionomia diversa, con un impegno sociale molto più spinto. Ecco il perché della nascita di questa associazione».



In quanti siete?

«Attorno alla nostra associazione gravitano circa 40 ragazzi, anche se soltanto 18 sono maggiorenni e quindi ne possono fare ufficialmente parte. Lo zoccolo duro è costituito da universitari, ma abbiamo anche l’appoggio di alcune famiglie, del parroco, di un medico, di amici veronesi che ci fanno donazioni, del burattinaio Luciano Gottardi e di tanti altri».


Che tipo di attività svolgete?

«Possiamo sintetizzarle in quattro grandi aree: attività estive per bambini e ragazzi; ristorazione sociale con inserimenti lavorativi per persone svantaggiate; eventi culturali e artistici; devoluzione di fondi per persone in condizioni non agiate in Sud America».

Che ci dice delle attività estive e culturali?

«L'ambito educativo e formativo fa parte della nostra storia. Anni fa tenevamo incontri mensili per riflettere su determinate tematiche, poi ci siamo dedicati alle attività estive, prendendoci cura dei più piccoli attraverso l’organizzazione di settimane di gioco e riflessione. Quest’estate abbiamo avuto circa 700 ragazzi. Poi in parrocchia supportiamo la catechesi, nel doposcuola aiutiamo i ragazzi a fare i compiti, a trovare fiducia in se stessi, un ambiente positivo in cui essere inseriti».

Come è nata l'esperienza ristorativa?

«Dall'ASUC abbiamo ricevuto in gestione, senza scopo di lucro, il ristorante “La Capannina” di Bedòlpian che dopo la tempesta di Vaia era rimasto chiuso. Quest’estate l’abbiamo utilizzato come mensa e punto ristoro per i ragazzi delle attività estive e il sabato e la domenica abbiamo fatto ristorazione sociale. Così è diventata una formidabile palestra di lavoro per i nostri ragazzi perché è stato un imparare facendo, ma anche un imparare fianco a fianco. Abbiamo scoperto che tutti presentiamo degli spigoli, che non tutti la vediamo allo stesso modo, che non è sempre tutto idilliaco, che bisogna centrare un budget. Ma la cosa più bella è che abbiamo inserito un ragazzo a rischio dispersione scolastica affidatoci dai servizi sociali e una ragazza inviata dal tribunale dei minori per una pena alternativa».

Alla Capannina avete affiancato la denominazione "La Baita del Mett", perché?

«Il nostro gruppo ha voluto ribattezzare il ristorante con "La Baita del Mett" in ricordo di mio figlio Mattia. Così l’ideale rappresentato dal nome Shemà non rimane disperso nell’aria o confinato nelle teste delle persone, ma diventa anche un luogo fisico di confronto, di accoglienza, di servizio, di lavoro».


Della vostra dimensione missionaria, invece, che ci dice?

«È uno dei quattro pilastri portanti dell’associazione perché, pur operando noi a livello locale, non dobbiamo mai dimenticarci delle tante persone sfortunate che non vediamo solo perché vivono lontane. Qui voglio ricordare che delle mamme hanno confezionato canederli da mettere in vendita, i cui proventi sono andati a sostegno dell’operazione Mato Grosso in Perù. Poi abbiamo raccolto fondi per Daniela Salvaterra che gestisce due case in Perù dove accoglie 100 disabili e ora siamo in contatto con un vescovo di Bahia, originario di Lisignago, che ci ha chiesto di sostenere il loro progetto finalizzato a piantare viti per creare posti di lavoro in Brasile».


Obiettivi e progetti futuri?

«Creare cittadinanza attiva, far sì che i ragazzi crescano con una sensibilità, con una professionalità e con le competenze adeguate. In merito ai progetti stiamo già pensando agli eventi per l’estate 2023 e, attraverso il Comune, stiamo cercando di ottenere dei finanziamenti dalla Comunità di Valle per ristrutturare il ristorante».


Chi volesse darvi una mano?

«Può farlo in vari modi: con un contributo economico, di cui daremo poi un rendiconto, o mettendosi a disposizione come volontario per le varie attività. C'è chi viene a lavare i piatti, chi prepara torte e via dicendo. Far emergere i nostri ragazzi, consolidare la loro stima, apprezzare la voglia di ricerca e di mettersi al servizio che hanno, sono le cose più belle della nostra associazione».


CONTATTI

www.associazioneshema.org

info@associazioneshema.org









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