di JOHNNY GADLER
A Levico Terme Alidad Shiri ha raccontato la sua vita e il suo Paese, l'Afghanistan: l'infanzia felice, i talebani che gli uccisero mezza famiglia, il drammatico viaggio di oltre due anni attraverso Iran, Turchia e Grecia per approdare, nel 2005, nella nostra regione dove ha trovato famiglia e si è laureato. Oggi è giornalista, collabora con l'ONU e un giorno spera di tornare in Afghanistan o dove potrà essere utile a chi è meno fortunato di lui...
ALidad, che ricordo hai della tua infanzia nel tuo Afghanistan?
«Ricordi comuni a tanti bambini del mondo: la mia famiglia, gli amici, le feste, la scuola, i giochi, il pallone, le abbondanti nevicate d’inverno e il gran caldo d’estate. Abitavamo a Ghanzi, città che per cultura paragonerei a Firenze, dal commercio fiorente, attorniata da fertili campagne dove crescevano albicocchi, meli, mandorli, fagioli, carote, patate, grano...»
Un luogo incantevole, non l’immagine di un Paese armato fino ai denti e in perenne guerra che abbiamo noi occidentali...
«Vero, l’Afghanistan è dilaniato dalle guerre da oltre 40 anni, ma all’inizio degli anni ‘90, quando sono nato, c’erano periodi di pace e di tranquillità, durante i quali conducevo una vita normale. Ero felice e non mi mancava niente. Poi, nell’estate del 1999, tutto precipitò.»
Cosa accadde?
«Mio padre Alimadat, che era uno dei comandanti nell’esercito del partito Wahdat, morì per lo scoppio di una mina. Alcuni mesi dopo, nel marzo del 2000, i talebani bombardarono casa mia, uccidendo mia mamma, la nonna e mia sorella di sei anni. Lì capii che la mia infanzia era finita. Trovai rifugio da zia Hava, ma il dolore mi faceva impazzire: non mangiavo, non uscivo neanche per andare a scuola. Quando un anno dopo i talebani giunsero nella nostra zona, ci trasferimmo in Pakistan, a Quetta.»
Come ti trovasti?
«Feci nuovi amicizie, ma i pericoli erano sempre incombenti. Droga e alcool dilagavano anche fra i bambini, magari ti picchiavano solo perché eri di un’altra etnia, o ti potevano uccidere per rubarti la bici. Ma il problema principale era la mancanza di lavoro: lì non avrei mai avuto un futuro. Così nel 2003 decisi di venire in Europa. Sognavo Londra.»
Come pensavi di raggiungerla?
«Nell’unico modo concesso a un profugo: illegalmente, passando per l’Iran, la Turchia e la Grecia. Affidandomi a dei contrabbandieri, che avrebbero anche potuto uccidermi per vendere i miei organi o – come di fatto avvenne – derubarmi. Così, rimasto senza soldi, una volta arrivato in Iran, a Teheran iniziai a lavorare in una fabbrica. La città mi piaceva molto e guadagnavo bene.»
Però nel 2005 decidesti di andartene, perché?
«Lì non avevo la possibilità di studiare. Inoltre avrei dovuto vivere da irregolare, sempre con la paura di un controllo, senza nemmeno poter chiamare un medico in caso di bisogno. Non potendo tornare in Afghanistan, senza alcun futuro in Iran, optai per il pericolosissimo viaggio verso l’Europa. Rischiai di morire varie volte: di freddo, di fame, di sete… Durante un trasferimento a piedi, 9 miei compagni di sventura furono abbandonati perché stremati. Temo siano tutti morti.»
Il momento più pericoloso della tua odissea?
«Il viaggio dalla Grecia all’Italia. Il 20 agosto 2005 nel porto di Patrasso mi infilai sotto un TIR diretto in Italia, legandomi all’asse delle ruote posteriori del mezzo. I miei amici mi avevano detto: “Tranquillo, quando un camionista italiano scende dalla nave, al primo autogrill si ferma per un buon caffè”. Ma l'autista doveva essere tedesco e le cose non andarono così.»
Cosa accadde?
«Sceso dal traghetto, il TIR continuò a viaggiare per quattro ore prima di fermarsi. Pioveva a dirotto, l’autista andava veloce e io ero allo stremo. Piangevo e urlavo, ma non mi sentiva nessuno. Più di una volta fui sul punto di mollare la presa e se il camion avesse proseguito ancora per una mezz’ora, beh...non sarei qui a raccontarvi...»
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