di Johnny Gadler
Presentato a Trento, presso Palazzo Trentini, il libro di Filippo Boni "L'ultimo sopravvissuto di Cefalonia" che racconta l'incredibile ed eroica storia di Bruno Bertoldi, sopravvissuto allo sterminio degli italiani a Cefalonia nel '43, ai lager nazisti e ai gulag sovietici...
Un uomo per bene, che ha attraversato gli orrori del Novecento cercando in ogni modo di sopravvivere, senza mai rinunciare alla propria dignità. Questa è la storia di Bruno Bertoldi, un valsuganotto qualunque che il destino ha trasformato in un eroe suo malgrado, scampato alla morte almeno una dozzina di volte, prima sopravvivendo all’eccidio di Cefalonia, poi uscendo moralmente a pezzi – ma vivo – dai lager nazisti e, come se non bastasse, dai gulag sovietici.
Oggi Bertoldi è un arzillo nonnetto di 101 anni che vive – ancora da solo! – nel centro di Bolzano, dopo aver lavorato 40 anni alle acciaierie nel capoluogo altoatesino e dopo aver trascorso tutta la propria giovinezza negli orrori della guerra.
Una storia che ora è diventata anche un libro – Bruno Bertoldi L’Ultimo sopravvissuto di Cefalonia – scritto con la consueta magistrale sapienza e dovizia di particolari da Filippo Boni, scrittore toscano già autore lo scorso anno del bestseller sulla scorta di Aldo Moro dal titolo “Gli eroi di Via Fani”.
Bruno Bertoldi venne alla luce il 23 ottobre 1918 nel campo di concentramento di Mitterndorf dove pochi mesi prima i suoi genitori, due trentini deportati dalle autorità austriache, si erano conosciuti e innamorati.
Quando la famiglia Bertoldi ritornò in Valsugana, a Carzano, le condizioni di vita apparivano davvero proibitive poiché il lascito della Grande Guerra erano solo miseria e rovine.
Fu così che al giovane Bruno venne proposto, da parte di uno zio, di arruolarsi nell’esercito italiano. Benché il padre fosse contrario, nell’ottobre del 1937 Bruno partecipò a un corso allievi sottufficiali autieri a Verona. Nella primavera del 1939 passò a Bolzano come istruttore autiere e nell’autunno fu assegnato alla Divisione Acqui con la quale nel dicembre del 1940 raggiunse l’Albania dove rimase subito gravemente ferito durante un attacco aereo. Dopo qualche mese fu spostato a Corfù e nel novembre del 1942 giunse a Cefalonia, trascorrendo un periodo di pace apparente. Ma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 le truppe italiane furono sottoposte alla rappresaglia dei nazisti e i morti furono migliaia. Bertoldi miracolosamente si salvò, ma i tedeschi lo deportarono nel lager di Leopoli (Ucraina). Qui strinse amicizia con un finanziere di Bergamo, Mario Bonatta, e con altri due italiani assieme ai quali cominciò a lavorare negli altiforni di un’immensa officina. Le giornate trascorrevano monotone tra il duro lavoro nel caldo infernale dell’officina e il freddo siderale patito nelle fatiscenti baracche in cui provavano a riposare, sfidando le malattie, i morsi della fame e la sete.
Un giorno i quattro furono trasferiti in qualità di meccanici nel lager di Minsk, in Bielorussia, dove trascorsero tutta la primavera del 1944. Ma ai primi di luglio si diffuse la voce di un’imminente liberazione della Bielorussia da parte dell’esercito russo e i nazisti, consapevoli del fatto che la loro sorte fosse ormai segnata, ricevettero l’ordine di fucilare tutti i prigionieri. Il 2 luglio 1944 il comandante del lager, che aveva apprezzato l’abilità meccanica di Bertoldi, lo informò della drammatica decisione, offrendo a lui e agli amici una via di fuga. Così i quattro si ritrovarono su un treno ignorando, però, che la ferrovia fosse minata.
Quando il locomotore saltò in aria, i vagoni deragliarono e i fuggiaschi ebbero appena il tempo di saltare a terra prima dello schianto finale. Catapultati in un territorio sconosciuto e inospitale, i quattro furono catturati da partigiani cacciatori di teste tedesche che li fecero prigionieri come forza lavoro.
In seguito furono catturati dai Russi che li spedirono nel gulag di Rada, nella Russia sudoccidentale.
Arrivarono verso la fine del novembre 1944, trovando quello che Bruno non esita ancora oggi a definire l’inferno sulla terra. Di giorno, con una temperatura che toccava i meno trenta gradi, i prigionieri venivano mandati a tagliare legna nei boschi senza nemmeno un paio di guanti; di notte erano stipati in grandi buche profonde quatto o cinque metri, scavate nel tufo. In queste condizioni disumane moltissimi di loro avevano contratto il tifo petecchiale e i cadaveri di chi non sopravviveva venivano semplicemente accatastati in un angolo dove, nottetempo, qualche disperato prelevava loro il cuore per mangiarselo.
Un giorno fu trasferito a quasi 3 mila km di distanza, a Taskent, in Uzbekistan, dove fu costretto a lavorare nei campi di cotone; poi, inaspettatamente, il 13 ottobre 1945 la liberazione e il ritorno in Valsugana.
Bruno affrontò il lungo viaggio verso casa in stato catatonico: faticava a muoversi e aveva la vista annebbiata, anche perché nel frattempo aveva contratto la malaria.
Giunse a Castelnuovo, dopo oltre due mesi di viaggio, la Vigilia di Natale del 1945. Scese dal treno, ma le gambe ormai non lo reggevano più e cadde in un cumulo di neve. Non riusciva più a muoversi e in giro non vi era anima viva. Per ironia della sorte, dopo aver sfiorato la morte almeno una decina di volte sotto i colpi di feroci nemici, Bruno Bertoldi rischiava di essere ucciso da soffici fiocchi di neve amica. Quella di casa sua.
Ma, essendo la notte di Natale, accadde un miracolo. Alcuni operai della segheria di Castelnuovo, usciti dall’osteria per un caso fortuito, lo trovarono. In poco tempo attorno a lui si riunì tutto il paese di Castelnuovo, compresa Fausta una ragazza che Bruno aveva conosciuto qualche anno prima durante una delle rare licenze e che gli aveva dichiarato la volontà di sposarlo. I due infatti convolarono a nozze e da quell’unione nacquero tre figli.
Bruno per molti decenni non disse nulla della sua terribile storia, anche perché nell’estate del 1948 a Castelnuovo si presentarono due sconosciuti intimandogli di non raccontare mai a nessuno ciò che aveva vissuto in Unione Sovietica.
Ma la notte di Natale del 1975, a trent’anni esatti dal suo ritorno a casa, Bruno sentì suonare alla porta. Era il figlio del finanziere Mario Bonatta, l’amico che gli era morto fra le braccia in Russia. Bruno accolse l’uomo in casa e da quel momento cominciò a svelare – all’inizio in famiglia e poi più recentemente in pubblico – la sua incredibile storia ora raccontata, per la prima volta nella sua interezza, da Boni nel libro “L’ultimo sopravvissuto di Cefalonia”, che si legge tutto d’un fiato e che ci restituisce un eroe qualunque – Bruno Bertoldi – di cui la Valsugana può andare davvero fiera.