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A che ora è la fine del mondo? Ecco le profezie che abbiamo ignorato



Profezie vecchie di decenni totalmente inascoltate e nuove minacce globali, ben oltre il problema della pandemia in atto che pare solo il brutto sintomo di un male più grande che si sta profilando all'orizzonte e che fingiamo di non vedere...

di Johnny Gadler

La profezia era questa: nel 2008 ci sarà una grave depressione economica, nel 2020 la quantità di cibo e di servizi pro-capite andrà a picco, dal 2030 la popolazione mondiale subirà un collasso a causa della mancanza di cibo. A formulare queste previsioni apocalittiche – in parte già avveratesi – non furono i Maya, né tanto meno Nostradamus o un gruppo di ecoterroristi “no global”. A dirlo – anzi, a scriverlo nero su bianco in un rapporto ufficiale – furono degli economisti e degli scienziati, su input non di qualche Greta Thunberg ante litteram, bensì di un imprenditore italiano con una lunga carriera in Fiat.

Aurelio Peccei, questo era il suo nome, nell’aprile del 1968 aveva fondato quello che sarebbe passato alla storia come il Club di Roma, associazione tuttora esistente composta da scienziati, economisti, premi Nobel, leader politici e intellettuali. Nei primi anni ‘70 il Club commissionò uno studio sui limiti dello sviluppo mondiale. La conclusione cui giunsero i ricercatori dell’epoca, oltre alle profezie sopra ricordate, era che con quei tassi di crescita dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse, il mondo sarebbe andato incontro a una grave crisi in meno di un secolo.

Una teoria semplice, tanto da circolare spesso anche come battuta: «Se tu credi che un qualcosa (lo sviluppo), all’interno di un sistema finito (come la terra), possa crescere all’infinito, o sei stupido o sei un economista».

Da quelle funeste profezie è passato mezzo secolo: in questo arco di tempo gli economisti, i politici e l’opinione pubblica forse non sono stati del tutto stupidi, ma di certo troppo ottimisti, ritenendo che il mercato e la tecnologia avrebbero risolto le evidenti storture del sistema. Così non poteva essere, non è stato e non sarà.


Un esodo biblico

Molti scienziati affermano che nei prossimi 30 anni le persone costrette ad emigrare dai propri territori a causa dei cambiamenti climatici (siccità, inondazioni e aumento del livello dei mari) saranno oltre 200 milioni. Ma entro la fine del secolo a dover fuggire da luoghi diventati inospitali, caldi quanto il deserto del Sahara, sarà addirittura un terzo della popolazione mondiale.


Morire di clima

È logico immaginare che questi esodi biblici saranno fonte di gravi problematiche socio-economiche, ma il fronte più drammatico si aprirà sul versante sanitario. Già dal 2050 le persone uccise ogni anno dall’aumento delle temperature e dagli effetti climatici, fra cui vanno inserite le malattie portate dagli insetti, saranno più di quelle provocate dal Covid-19.

Di più. Fra 60-70 anni le morti premature causate dai cambiamenti climatici supereranno ogni anno il numero delle persone che oggi muoiono per tutte le malattie infettive messe insieme. Questo dimostra, ancora una volta, come tra cambiamenti climatici e comparsa di malattie esistano delle interazioni molto preoccupanti.

La pandemia di Covid-19 che perdura e sta flagellando il mondo, altro non è che un tassello di questo gigantesco cortocircuito, i cui effetti peggiori, se non si cambia radicalmente rotta, debbono ancora arrivare.

Il Covid? Un brutto sintomo...

Ora tutta la nostra attenzione mediatica ed emotiva è focalizzata sul Covid-19, perché lo avvertiamo come pericolo incombente, ma si tratta solo di un sintomo. La malattia vera e propria, contro la quale si fa ancora troppo poco, si chiama cambiamento climatico, di cui pur abbiamo conosciuto qualche deleterio aspetto – vedi tempesta Vaia – ma che percepiamo come problema di un futuro lontano, tanto da accantonarlo fino a quando verrà il momento. Ma allora sarà troppo tardi per invertire la rotta di un disastro annunciato dai numeri. Eccone alcuni.


I dati infuocati

Nel “Rapporto sullo stato del clima globale” diramato il 10 marzo scorso, l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO), tra i vari campanelli d’allarme che squillano come trombe, sottolinea alcuni dati.

Il 2019 è stato il secondo anno più caldo di sempre (il primato per ora lo detiene l’anno 2016).

Lo scorso gennaio 2020 è stato il primo mese dell’anno più caldo della storia, così come il decennio appena trascorso (2010-2019) è stato quello più bollente di tutti i tempi. E, cosa più preoccupante, dagli anni ‘80 ogni decade ha stabilito un nuovo record negativo. Rispetto al periodo preindustriale l’aumento medio della temperatura globale è stato di 1,1° C. Un aumento che si è verificato soprattutto negli ultimi 40 anni e che a molti potrebbe sembrare insignificante. Invece già rappresenta un grave problema per molte aree del pianeta.

Come nelle regioni artiche dove il cambiamento climatico ha talmente inciso sull’ambiente, che le popolazioni indigene Inuit del Canada risultano sempre più afflitte da disturbi psicologici (chiamati solastalgia), dovuti al fatto che non riconoscono più le terre in cui da sempre abitano.


Che cosa rischiamo?

Visto che il tasto magico per spegnere il pianeta infuocato non esiste – e che quindi la temperatura media è destinata a salire ancora nei prossimi decenni – occorre cercare quantomeno di contenere l’aumento entro 1,5° C. Perché un aumento della temperatura da 1,5°C a 2° C provocherebbe dei veri e propri disastri: aumento dei fenomeni meteorologici estremi; innalzamento dei mari, prima di 10 centimetri, poi di diversi metri a causa dello scioglimento delle calotte polari; aumento delle malattie e peggioramento della disponibilità di cibo in molte parti del mondo; scongelamento di 2 milioni kmq di permafrost, cioè il suolo perennemente gelato delle alte latitudini, fenomeno che non solo farebbe inabissare gli edifici, ma rilascerebbe nell’atmosfera quantità enormi di metano, accelerando l’effetto serra.


Negazionisti e ottimisti

I negazionisti affermano che il riscaldamento globale non sia un problema, perché nel corso della storia il livello di anidride carbonica (CO2) presente nell’atmosfera ha subìto varie impennate. Vero, nel corso degli ultimi 800 mila anni gli scienziati hanno evidenziato molti sbalzi di questo dato, ma non si è mai registrato un picco di 400 parti per milione come risulta adesso. Si tratta di una situazione senza precedenti e che va affrontata subito. Come?

Alcuni inguaribili ottimisti ritengono che saranno le tecnologie a salvarci, come quella di estrarre la CO2 dall’atmosfera mediante un processo che in realtà è stato appena abbozzato e che comporterebbe investimenti astronomici. Addirittura vi è chi ha ipotizzato di schermare il sole, per ridurne il calore, con delle polveri rilasciate nella stratosfera, soluzione fantascientifica e che avrebbe conseguenze imprevedibili per l’umanità.


In realtà le azioni atte a contrastare il riscaldamento globale non possono che scaturire da due vie maestre: da un lato cercare di ridurre la quantità di gas serra con impegni a carattere internazionale, dall’altro predisporre delle adeguate strategie a livello nazionale per fronteggiare gli inevitabili fenomeni meteorologici estremi, l’erosione e la desertificazione, l’innalzamento dei mari.


Gli equivoci di fondo

Se il risparmio energetico e il passaggio a forme di energia pulita, salvaguardando i polmoni verdi del pianeta, paiono un mantra perfetto, nella pratica la situazione risulta molto più ingarbugliata. Innanzi tutto occorre distinguere tra energie “rinnovabili” e “pulite” che apparentemente sembrano la stessa cosa, mentre non lo sono affatto. Legna, biomasse, biogas rappresentano senz’altro delle fonti "rinnovabili", ma contribuiscono all’effetto serra e quindi non si possono definire "pulite". Vari studi, infatti, riportano come nell’inquinamento della pianura padana, una delle aree più inquinate di tutta Europa, un ruolo significativo lo giochino le emissioni dovute alla combustione di legna. Non dimentichiamoci che l’inquinamento atmosferico provoca ogni anno 7 milioni di morti, 80 mila dei quali in Italia. Nel mondo sono addirittura tre miliardi le persone che ancora cucinano in modo “sporco”, come ad esempio con dei bracieri posti all’interno della cucina e con fonti di calore quali legno o sterco essicato, abitudini da cui scaturiscono molte gravi malattie polmonari.


Le magnifiche tre

Quando si parla di energie "pulite" sono da considerarsi soltanto tre fonti: l’energia solare (il fotovoltaico sui tetti delle case, nei campi e ad alta concentrazione), l’eolico (sfruttato anche in mare aperto attraverso delle torri), il moto ondoso.

E il nucleare, affermano alcuni, perché non annoverarlo fra le energie pulite su cui puntare, visto che non provoca emissioni di CO2? Sul piano delle emissioni il discorso regge, ma l’eliminazione delle scorie costituirebbe un problema di non poco conto. Il dibattito potrebbe apparire sterile visto che dopo il disastro di Chernobyl molti Stati hanno accantonato l’ipotesi del nucleare. Non così, però, accade nei Paesi in via di sviluppo come l’Africa, dove negli ultimi tempi la Russia è molto attiva nel voler offrire tecnologie nucleari ai vari Governi.


Limiti e prospettive

Ma ammesso e non concesso che tutto il mondo si converta alle tre grandi fonti di energia pulita, occorre fare i conti con la discontinuità di tali approvvigionamenti. Se da un lato i sistemi di stoccaggio risultano sempre più avanzati, le giornate prive di sole o di vento rappresentano ancora un serio ostacolo ad un utilizzo esclusivo di tali risorse. Infatti, se è vero che dal 2025 elimineremo le centrali a carbone molto impattanti, di certo per una parte delle centrali elettriche continueremo ad utilizzare il gas ancora per parecchio tempo. E il gas naturale, rispetto al carbone, a parità di potere calorifico emette il 50-60% in meno di CO2, ma è pur sempre inquinante.

Fino al 2017 i tre combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) rappresentavano l’81% nel soddisfacimento del fabbisogno di energia primaria. Se continuiamo con il trend attuale nel 2040 scenderemo non oltre il 78% e anche applicando le politiche più drastiche la riduzione non andrebbe oltre il 60%.


Il ruolo dei Governi

Ma che cosa hanno fatto finora i governi mondiali per frenare la corsa della terra verso il baratro? Ben poco, nonostante la questione dei cambiamenti climatici fosse entrata nell’agenda internazionale già dal 1968, allorché ci si prefiggeva di monitorare sia gli andamenti che le prospettive dell’effetto clima.Il primo accordo quadro sul cambiamento climatico fu ratificato nel 1994, ma non comportava impegni specifici da parte dei singoli Stati. Con il Protocollo di Kyoto (datato 1997 ma entrato in funzione solo nel 2005) l'impegno a contenere le emissioni risultava vincolante per i Paesi sviluppati, non per quelli in via di sviluppo. In Europa qualche risultato è stato ottenuto nel ridurre le emissioni di CO2, ma il sistema consentiva che le industrie più inquinanti potessero acquistare crediti di emissioni da altre imprese più virtuose, oppure attraverso iniziative volte a contenere l’inquinamento in altri Paesi.

Con la Conferenza di Parigi del 2015 tutti i Paesi riconobbero la necessità di contenere l’aumento delle temperature entro i 2° C, meglio ancora 1,5° C, sottoscrivendo un impegno spontaneo a ridurre le emissioni, senza però alcun controllo da parte degli altri. Da allora ogni anno si tiene una Conferenza (Cop) sul clima, ma gli impegni presi spesso vengono non solo disattesi ma addirittura ignorati. Basti pensare agli USA sotto la presidenza di Trump, ma anche a Stati fortemente dipendenti dal carbone come Australia e Polonia. E da noi?

Dal 2017 è pronto un Piano di adattamento ai cambiamenti climatici, che però finora non è stato discusso.

All’inizio del 2020 l’Italia ha presentato a Bruxelles un aggiornamento del Piano integrato energia e clima (Piec) con obiettivi ambiziosi quali ottenere il 30% del fabbisogno di energia primaria dalle rinnovabili entro il 2030. Ma si sa che tra il dire e il fare c’è di mezzo non il mare, bensì il portafoglio, soprattutto in un Paese tassato e tartassato come il nostro, dove il proprio tornaconto è sempre molto più forte del bene comune. Un esempio? Il tentativo di ridurre i 19 miliardi di euro che ogni anno il nostro Stato elargisce in sussidi dannosi per l’ambiente si infrange contro la resistenze di varie categorie interessate, fra le quali agricoltori, camionisti, pescatori.

È un dato di fatto: dai sondaggi emerge chiaramente quanto l’opinione pubblica avverta il cambiamento climatico come uno dei problemi più rilevanti, ma ancora non percepisce l’entità degli interventi necessari per farvi fronte. La politica, dal canto suo, tergiversa, perché sa che dovrebbe assumere provvedimenti molto impopolari quali, ad esempio, una carbon tax, cioè una tassa posta su tutti i prodotti in relazione alla quantità di carbonio necessaria per produrli. Ne conseguirebbe, però, un aumento dei prezzi, con il rischio concreto di vedere tutti gli sforzi vanificati a causa dei Paesi in via di sviluppo, i maggiori potenziali utilizzatori di energia non pulita perché prodotta con tecnologie obsolete.

Ma che cosa accadrebbe se un Governo europeo varasse una tassa che fa aumentare i prezzi per il consumatore e contemporaneamente il maggior gettito fiscale venisse girato in aiuti ai Paesi in via di sviluppo? Non dimentichiamo che in Francia la protesta dei gilet gialli è scaturita proprio dall'aumento del prezzo dei carburanti. Ci troviamo quindi di fronte a un vicolo cieco?


I buoni segnali

Per quanto fioca e incerta, in fondo al tunnel qualche luce comunque si comincia a intravede. A partire dagli USA dove, nonostante Trump, molti Stati e amministrazioni cittadine si sono poste dei limiti alle emissioni. In Europa la nuova commissione Ursula von der Leyen ha posto al centro dell’agenda lo sviluppo sostenibile, iniziando proprio dal clima. La società civile ha avuto un sussulto con iniziative quali i “Fridays for future”, molte imprese stanno puntando tanto sulla “green economy” che non appare affatto un azzardo economico se è vero che dal 2021 la Banca europea degli Investimenti (Bei) non finanzierà più le imprese fossili, perché in prospettiva rappresentano un grosso rischio.

La variabile demografica

Ma la partita, come accennato, si gioca soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, anche in ragione della crescita demografica mondiale, strettamente connessa ai cambiamenti climatici.

Quarant’anni fa, infatti, il mondo contava appena 3,5 miliardi di individui. Oggi siamo arrivati a quota 7,6 miliardi e secondo le previsioni ONU nel 2050 toccheremo quota 9 miliardi di persone, che diventeranno 11 miliardi nel 2100. Protagonista di questa escalation sarà soprattutto il continente africano che in cent’anni, dal 1950 al 2050, vedrà la sua popolazione addirittura decuplicata, passando da 200 milioni a due miliardi e mezzo di persone.

Così la classe media attualmente composta da 1,8 miliardi di persone, tra 20 anni ne conterà 4,8 miliardi. Si tratta di tre miliardi di persone in più che vorranno consumi simili ai nostri: carne, elettrodomestici, automobili...


L'overshoot day

Questo vertiginoso aumento della popolazione sul pianeta rappresenta un grande spauracchio, perché la conseguenza più prevedibile sarà un progressivo anticipo di quello che tecnicamente viene chiamato l’Earth overshoot day, ossia il giorno in cui si calcola che gli abitanti della terra abbiano consumato tutte le risorse a loro disposizione per quell’anno. Una data che adesso è fissata al 29 luglio. In pratica l'umanità consuma in media le risorse prodotte annualmente da un pianeta e mezzo. Alcuni paesi, come gli Usa, consumano addirittura 5 volte in più, mentre l’Italia 2 volte e mezzo. L’obiettivo di portare questo giorno alla sua naturale scadenza, ovvero al 31 dicembre, facendo sì che ogni anno si utilizzino solo le risorse disponibili per quell’arco temporale, sarebbe auspicabile ma ridurrebbe drasticamente il PIL mondiale. In Italia ritornerebbe al livello di 50 anni fa, paragonabile a quello del Kossovo o della Mongolia.


L'insostenibile peso

Se “L’insostenibile leggerezza dell’essere” è stato uno dei libri cult dei rampanti anni ‘80, il titolo del libro cult – ancora tutto da scrivere – di questi anni duemila, caratterizzati da pandemie e stravolgimenti climatici, non potrà che essere “L’insostenibile pesantezza dell’avere”.

Finita l’emergenza Covid-19 dovremo necessariamente ripartire tutti – Stati, imprese, cittadini – con una svolta verso un mondo più sostenibile ed equo. A chiedercelo non è Greta Thunberg, ma il pianeta terra che non riesce più a soddisfare le nostre esigenze sempre più smisurate. Ritornare a ciò che eravamo prima equivarrebbe a voler curare il Covid con una semplice aspirina, perché la pandemia è solo il sintomo di una malattia più grave benché ancora silente, almeno fino alla prossima alluvione, alla prossima tempesta, alla prossima carestia, alla prossima stagione pazza. E allora tutti a dire: «Non ci sono più le stagioni di una volta!». Ma a cambiare non sono state le stagioni, bensì il mondo. Ce l'aveva preannunciato, quasi 50 anni fa il Club di Roma, ma non c'abbiamo creduto e, come sempre, abbiamo fatto finta di niente. Ma ora occorrerà aprire gli occhi e guardare ben oltre il Covid-19, affinché terminata l'emergenza sanitaria a qualcuno non venga più in mente di dire: «Passata la festa, gabbato lo santo», ricominciando tutto come prima. Peggio di prima.


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